Il pastore e la fotomodella «Con 400 pecore facciamo gli imprenditori»

Lui congegnatore meccanico Lei geometra: «Rocco Toscani, il figlio di Oliviero, voleva che posassi per un book, ma a me non interessava». Hanno vinto la disoccupazione dedicandosi all’allevamento transumante

Lui si chiama Davide Bortoluzzi, è nato a Belluno, ha 24 anni e un diploma di congegnatore meccanico. S’è fatto praticare un piercing sull’orecchio sinistro, ma non saprebbe spiegare il significato di quell’anellino d’argento: «Mi attirava». Lei si chiama Daniela Pasinetti, è nata a Varallo Sesia (Vercelli), ha 31 anni e un diploma di geometra. In passato s’è guadagnata da vivere come accompagnatrice equestre, ma sarebbe potuta diventare una modella professionista: «M’è capitato di posare per un fotografo del mio paese e Rocco Toscani, il figlio di Oliviero, insisteva perché facessi un book con lui. Ho rifiutato, perché era un mestiere che non m’interessava».
Raccontàti così, li diresti appena usciti da una discoteca. Ma con quest’abbigliamento non li lascerebbero entrare nemmeno nel parcheggio del night club: lui in tuta mimetica, camicia a scacchi da montagna e gilet di pelle; lei in blusa di lana e jeans; l’ombrello e gli scarponi con la suola in vibram per difendersi dalla pioggia e dal fango; un bastone da patriarchi biblici che in Veneto chiamano la bagolìna, perché viene ricavato intagliando il bagolàro, Celtis australis, olmo ornamentale dal legno flessibile, detto anche spaccasassi per via della sua eccezionale robustezza; un cappello di feltro soprannominato ciula - e per fortuna non siamo in Lombardia - grigio per lui, verde e di forma graziosamente simile a quello degli alpini per lei.
E infatti non siamo all’uscita da una discoteca, dove il sorgere del sole coincide con l’immeritato riposo. Qui, tra i 1.492 metri del rifugio Dolada intitolato a Déodat de Dolomieu, il geologo francese che diede il nome alla dolomia e alle Dolomiti, e i 2.472 del Col Nudo, la montagna più alta delle Prealpi venete, dove lo sguardo spazia a quasi 360 gradi su Col Mat, Teverone, Venal, Messer, Antander, Guslon, Pizzocco, Nevegal fino al lago di Santa Croce, l’alba segna ancora l’inizio d’un nuovo giorno di fatica.
Davide e Daniela hanno scelto uno strano lavoro per due ragazzi della loro età: sono pastori. Transumanti, non stanziali. Perciò appartengono al popolo della notte solo nel senso che quando fa buio dormono. La loro sveglia squilla all’aurora. Un po’ di caffellatte, due biscotti e poi via, gambe in spalla, verso i pascoli col loro tesoro, un gregge di 400 pecore, 40 delle quali alpagote, una razza pregiata in via d’estinzione - appena 2.000 capi e 3.000 agnelli censiti dal ministero dell’Agricoltura - che si riproduce solo nell’Alpago, area storico-geografica del Bellunese delimitata dalla Foresta del Cansiglio; una razza assai rinomata per le sue carni, entrata a far parte dei presidii dello Slow food che salvaguardano le eccellenze gastronomiche minacciate dall’industrializzazione del cibo. Fanno tutto da soli, aiutati da quattro cani, i pastori belgi Rocky e Kyro, il border collie Black e il pastore australiano Turbo che Daniela ha portato con sé dal Piemonte. Hanno anche otto capre, che obbediscono prontamente se convocate per nome: Eugenia, Ezia, Alba, Pepè, Cioccolata, Castagna, Caramella e Margherita. Sarebbe stata assai più complicata l’anagrafe ovina per quasi mezzo migliaio di pecore. Perciò si sono limitati a chiamare Nerina e Martina le uniche due che hanno dovuto svezzare col biberon.
Come la stragrande maggioranza dei loro coetanei, Davide e Daniela erano candidati alla disoccupazione o al precariato. Hanno preferito darsi dattorno e prendere in mano le loro vite con una scelta di fatica e di coraggio, la medesima fatta nell’ultimo triennio da 1.180 giovani fra i 18 e i 40 anni che si sono trasformati in imprenditori agricoli, aprendo nuovi insediamenti oppure ristrutturando le aziende di famiglia, grazie al miliardo e 50 milioni di euro messi a disposizione dalla Regione Veneto col programma di sviluppo rurale. «Nel 2008 mi sono stati erogati 30.000 euro a fondo perduto, il massimo dello stanziamento previsto, che mi sono serviti per comprare il gregge», spiega Davide Bortoluzzi sfoderando un inaspettato piglio manageriale. «In cambio mi è stato dato tempo fino al 2011 per dimostrare che riuscivo a mantenermi con questo lavoro».
C’è riuscito?
«Sì. Non è che con la pastorizia si diventi ricchi. Però intorno ai 15.000 euro netti l’anno riesci a guadagnarli. Insomma, si vive».
E se per caso si disamora?
«L’impegno è a mantenere la partita Iva per almeno un quinquennio. Se molli prima, devi restituire il sussidio che ti hanno assegnato».
Lei non si disamora di sicuro, con la fidanzata fotomodella a tenerle compagnia.
«Anzi, ci sto prendendo sempre più gusto. Tant’è che voglio costruirmi anche l’ovile. Ho presentato domanda per entrare in graduatoria. La Regione ti finanzia il 60 per cento del costo, fino a un massimo di 500.000 euro, a condizione che poi la stalla resti attiva per almeno sette anni».
Mi parli della sua famiglia.
«Mio padre Valerio è direttore di una fabbrica di pannelli termoisolanti, mia madre Mirella fa la casalinga. Sono figlio unico».
Dove abita?
«Nel loro stesso paese, Sitran, una frazione di Puos d’Alpago».
Che cosa c’è scritto sulla sua carta d’identità alla voce «professione»?
«Pastore».
Sarà mica nato pastore?
«Quasi, benché mi sia diplomato all’istituto tecnico. Già a 6-7 anni ero affascinato dalla transumanza. Vedevo le greggi passare lungo il Piave, che non a caso è stato ribattezzato “l’autostrada delle pecore”: a marzo-aprile dalla Pianura padana verso il Cadore e l’Agordino, a ottobre-novembre dai pascoli verso la valle. Seguivo i pastori per lunghi tratti. A 12 anni chiesi ai miei genitori di comprarmi una pecora».
Immagino la risposta.
«Infatti. Un no. L’anno dopo uscì la Playstation. La desideravo anch’io, come tutti i miei compagni. Papà e mamma, volendo dissuadermi dalla fissa per la pastorizia, mi dissero: “O la Playstation o le pecore, scegli”. Le pecore, risposi senza esitazione. Ormai non potevano più rimangiarsi la parola. Al prezzo della consolle per videogiochi comprai Bettina e Diana. Le portavo a spasso col guinzaglio. Mio nonno Giovanni, per non essere da meno del nipote, si prese anche lui due pecore, Cesira e Narcisa».
Ora dove tiene le sue 400 pecore?
«All’aperto. Se le lasci libere, continuano a salire, fino ai 1.980 metri del Col Mat. È nella loro natura: vanno a dormire in cresta per paura dei predatori. D’inverno invece scendo a valle per un centinaio di chilometri, fino a Oderzo».
Le porta dove capita?
«Magari. Non vi è ovunque libertà di passaggio e di pascolo. I Comuni emettono spesso ordinanze di divieto perché le greggi intralciano il traffico, sporcano e disturbano chi fa footing sui tratturi. E poi bisogna trovare un accordo con i proprietari dei campi. Quindi mi sposto tutti i giorni di 15-20 chilometri e ogni sera devo costruire un recinto improvvisato. Per poter attraversare i binari ferroviari devi camminare con l’orario dei treni in tasca».
E quando nevica?
«È il momento peggiore. C’è da sperare che fiocchi poco. Fino a 10 centimetri le pecore riescono a scavare con lo zoccolo nella neve. Altrimenti bisogna correre a comprare il fieno».
Quanto costa un agnello?
«Dai 100 ai 150 euro».
E una pecora?
«Cento euro. Quelle da latte sui 200 euro».
Le alleva per mungerle?
«No, per la carne degli agnelli».
A chi la vende?
«A ristoranti famosi, come il Dolada di Pieve d’Alpago e il San Lorenzo di Puos d’Alpago, che hanno entrambi la stella Michelin. Ma i migliori clienti sono i musulmani».
Non mi dica.
«Mi chiedono gli agnelloni maschi per la fine del ramadan e le altre feste religiose. Per loro i più pregiati sono quelli che hanno la coda lunga e le corna e che non recano sul corpo ferite o cicatrici. Le orecchie devono arrivare a toccare la punta del naso. Se li immolano in occasione della nascita di un figlio, vogliono i più aggressivi, perché pensano che così anche il bambino da circoncidere sarà più forte una volta diventato adulto».
Lo sa che il ministro del Turismo, Michela Vittoria Brambilla, in occasione della Pasqua 2011 ha firmato l’appello «Fermiamo la strage di agnelli e capretti»?
«Lo so sì. Gli animalisti hanno affisso i manifesti anche da queste parti, ma io li ho strappati. Che almeno mi lascino guadagnare qualcosa da vivere a Pasqua. Oppure dovrei morire di fame perché campino gli agnelli?».
Dalla lana non ricava nulla?
«Non la vuole nessuno. Smaltirla sarebbe una spesa aggiuntiva. Ne ho già riempito una stalla. Adesso pare che ci sia un progetto per utilizzarla nella produzione di cappelli, tabarri e pantofole. Speriamo bene. Radere la lana alle pecore costa parecchio, sa? Pensi che i tosatori arrivano in aereo dalla Nuova Zelanda, stanno qui un paio di mesi e passano tutte le greggi della zona. Chiedono due euro a capo. Sono velocissimi. Ho cronometrato il più bravo: ha tosato una pecora in un minuto e 10 secondi».
Mi racconti la sua giornata.
«Sveglia tra le 5 e le 5.30. Pascolo le pecore fino alle 10. Poi le porto all’ombra. A mezzogiorno pane, salame e formaggio, oppure mi accendo un piccolo fuoco per grigliare carne e salsicce. Alle 16 il gregge si rimette in marcia da solo. Alle 20.30 lo raduno nel recinto provvisorio e curo le pecore azzoppate o mi occupo di quelle che hanno partorito».
E se piove?
«Apro l’ombrello. Quando i temporali sono forti, scendo di quota, perché i fulmini colpiscono di preferenza sulle creste. Una sola saetta può ammazzare 30, 50, 100 pecore, anche l’intero gregge. M’è toccato assicurarmi con la Val Piave, gruppo Itas».
Lei non ha paura di morire folgorato?
«Altroché. Per fortuna finora ho visto i fulmini cadere solo sulle rocce e sugli abeti: un frastuono infernale, una luce accecante e poi le lingue di fuoco che corrono sul terreno. L’unico modo per difendersi è buttare lontano l’ombrello, per non attirarli col puntale metallico, e starsene accucciati sotto la pioggia, lontani dagli alberi».
Che altri pericoli incombono sulle sue pecore?
«Siccome partoriscono gli agnelli a 30 metri di distanza l’uno dall’altro, mentre corro ad accudire il primo capita che piombi dal cielo un’aquila a ghermire il secondo. Idem le volpi, che invece attaccano di notte. Ma i più terribili sono i corvi imperiali, che si appoggiano addirittura sulle schiene delle pecore e cavano gli occhi agli agnelli appena partoriti».
Qual è il peggior disagio per un pastore?
«Le persone che incontra».
E il momento più bello?
«La transumanza al contrario, quando ritorna fra le sue amate vette».
I vostri coetanei sono contenti d’avere per amici due pecorai?
«Li vediamo poco. La sera siamo troppo stanchi. Sarà già passato un mese e mezzo, forse due, da quando i nostri amici ci hanno portato a mangiare una pizza a Vittorio Veneto».
Non si stufa a stare da solo tutto il giorno?
«No. C’è sempre qualcosa da fare, da sistemare, da vedere. Dopo cena guardo le pecore».
Le conta per addormentarsi?
«Ha presente le foto nell’Intervallo della Rai in bianco e nero? Stessa funzione».
Per lavarsi come fa?
«Una doccia ogni due o giorni. Ma prima devo trovare un altro pastore che mi custodisca il gregge. Per cui a volte può capitare che la gente mi guardi storto quando mi reco dal salumiere a fare la spesa...».
E se si ammala?
«Vado lo stesso. Il 25 aprile di tre anni fa avevo 39 di febbre. C’erano qui i tosatori neozelandesi. Potevo mettermi a letto?».
A che cosa pensa mentre è al pascolo?
«A un sacco di cose. Al mio futuro, che vedo incerto. A quello che succede nel mondo. A come migliorare la mia azienda. Ai problemi che avremo per mettere al mondo dei figli».
Stando quassù, che idea s’è fatto dell’epidemia di Escherichia coli?
«Che cos’è?».
Non la trovo molto informato su quello che succede nel mondo.
«Be’, in effetti l’ultimo giornale l’ho avuto fra le mani sei mesi fa».
Perché ha scelto le pecore? I montanari veneti allevano le mucche, di solito.
«Sono attratto dal nomadismo». (Interviene la fidanzata: «Deve avere sangue rom nel Dna»). «Fare lo zingaro mi dà un senso di libertà».
Il proverbio «Chi pecora si fa, il lupo se lo mangia» ha fondamento, secondo lei?
«Paurosa è paurosa. Una pozzanghera di 5 centimetri basta a fermarla».
Ma davvero se un uomo ha 100 pecore e ne smarrisce una, lascia le 99 sui monti per andare in cerca di quella perduta, come dice Gesù nel Vangelo di Matteo?
«Sì, è così. Una s’era persa allontanandosi al momento del parto. Ho camminato due ore per recuperarla».
Lei conosce tutte le sue pecore come nella parabola del buon pastore?
«Certamente. Se una mia pecora finisse in un altro gregge, saprei riconoscerla fra mille».
In discoteca ci va mai?
«L’ultima volta sarà stato due anni fa in Piemonte, ma solo perché volevo accontentare Daniela. Non sono un amante del ballo».
Come vi siete conosciuti?
«A una festa di compleanno. Ero andato a Casale Monferrato per vedere delle pecore da comprare».
Vacanze ne fate?
«Tre giorni l’anno.

Andiamo a trovare i suoi genitori a Varallo Sesia».
Vivrebbe a Torino o a Milano?
«Ma neanche a Belluno!».
Come vede l’Italia dalle Dolomiti?
«Lontana. Balorda».
(549. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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