Cinema

"Patagonia", l'esordio di Simone Bozzelli che indaga sulle schiavitù dell'amore

Il regista di "I wanna be your slave" dei Måneskin spera nel premio all'opera prima

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Un amore non si compra svuotando un salvadanaio. Un cane non si regala ma si ama. E la Patagonia non fa rima con la Terra del fuoco a meno che quell'incendio non sia il sentimento. La forza di un legame. Sentirsi la metà di qualcun altro, al quale non si può rinunciare. Chiunque si sia, la parte debole di una coppia o l'elemento dominante.

E questo è il braccio di ferro intorno a cui ruota la trama di Patagonia, il film dell'esordiente Simone Bozzelli in concorso al Locarno Film Festival e in arrivo nelle sale il 14 settembre. Un film che ha fatto comprendere subito come il cinema italiano abbia qualche chance di ripresa solo affidandosi a modeste e umili giovani leve, dotate di grande disponibilità e pazienza e per nulla spocchiose al contrario di celebrate divinità di Cinecittà. In tre, per anagrafe, fanno l'età di una star e sul lago Maggiore sono già felici così. Non chiedono e non si aspettano nulla. «È già un successo essere qui dove i miei miti di ragazzo hanno preso forma. Uno su tutti Bruno Dumont», chiosa il regista che insieme alla produzione sarebbe felice di un riconoscimento come opera prima.

Yuri (Andrea Fuorto) è un ragazzo fragile che alla festa di compleanno regala un cucciolo al bambino festeggiato. Ma questo è solo un preambolo perché in realtà a quella festa «si innamora» dell'animatore Agostino (l'attore non professionista Augusto Mario Russi) e tra i due nasce un rapporto di reciproca indispensabilità. La Patagonia è il sogno di sentirsi amati non il viaggio della vita e Yuri accetta l'ego di Agostino perché l'altra metà di sé non ha prezzo. Sarebbe come rinunciare a sé stessi. Un teorema assoluto. Bilaterale.

E il debole Yuri lo insegna al forte Agostino con la spontaneità di un ragazzo più autentico del coetaneo che vive in un camper facendo ridere i più piccoli La consapevolezza di un sentimento è la forma di libertà più alta. Questa è l'eredità di un film fatto in casa e ricco di riferimenti metaforici. L'aridità di un angolo di Abruzzo che si coniuga con tante vite e altro non è se non un non luogo perché potrebbe essere qualunque luogo. «Mi interessa il rapporto tra dominante e dominato - ha spiegato Bozzelli - e credo che sul tema della schiavitù ci sia ancora molto da dire».

Premiato a Venezia per alcuni cortometraggi e autore per i Måneskin del videoclip di I wanna be your slave - anche lì una storia di servi e padroni - di Bozzelli sentiremo presto riparlare. Come forse anche di Russi. «Mi hanno prelevato da un rave, ora spero di aver trovato un lavoro».

L'unico a tornare nelle pieghe della Patagonia, cioè della vita e della propria altra metà, è il cucciolo di cui all'inizio. «Vi domandate che fine abbia fatto essendo scomparso dal set... È diventato il mio cane - racconta Bozzelli -.

Tranquilli, si chiama Sandro e sta benone».

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