La pattuglia di Gianfranco ha già clonato il simbolo: si chiameranno «Pdl Italia»

RomaPiù o meno una dozzina. Appena appreso che nel vertice tra Berlusconi e Fini s’è fatto un passo in più verso lo strappo definitivo, dodici parlamentari tra i più fedeli al presidente della Camera sono accorsi dal capo. Sono loro i nuovi colonnelli, gli iper devoti al generale Gianfranco, pronti a battagliare dando vita, se è il caso, a una diaspora dal Pdl creando gruppi autonomi sia alla Camera sia al Senato. Già pronto pure il nome: «Pdl-Italia». Alla riunione al primo piano di Montecitorio ha preso parte un pugno di «ufficiali»: il braccio destro di Fini, Italo Bocchino, il ministro Andrea Ronchi, i fedelissimi Carmelo Briguglio, Adolfo Urso, sottosegretario allo Sviluppo economico, Roberto Menia, la direttora del Secolo d’Italia Flavia Perina e l’avvocatessa Giulia Bongiorno. Tra questi anche Antonio Bonfiglio e Amedeo Laboccetta, sebbene quest’ultimo, di recente, non abbia lesinato aspre critiche nei confronti di Bocchino. Nello studio di Fini anche Enzo Raisi, potente ex missino bolognese e attuale amministratore del Secolo; il senatore nonché sottosegretario per il Lavoro Pasquale Viespoli, il deputato Alessandro Ruben e l’onorevole show man Luca Barbareschi.
La minaccia finiana di staccarsi dal Pdl ha provocato l’ennesima conta tra chi seguirebbe l’ex leader di An e chi no. Alla Camera, sebbene nel partito gli uomini provenienti da Alleanza nazionale siano una novantina su un totale di 270, i cosiddetti finiani doc, sulla carta, non dovrebbero superare i trenta. Al Senato, invece, su 144 pidiellini, gli ex An sono 47 di cui solo una decina pro Gianfranco. Freddi numeri ma privi di certezza matematica. Chi sarebbe davvero disposto, infatti, a commettere un vero e proprio harakiri politico? Bastano 20 onorevoli e 10 senatori per costituire gruppi autonomi ma se davvero questi dovessero nascere, un’ora dopo si aprirebbe una ridiscussione su governo e maggioranza attuali. Difficile fare importanti riforme con un nuovo gruppo ostile all’esecutivo. Più probabile di un rimpasto di governo con la medesima maggioranza sarebbe l’apertura di una crisi - sebbene esclusa «categoricamente» da Bocchino - e il ritorno alle urne. In questa ipotesi, tuttavia, Fini andrebbe al redde rationem con gli elettori e il suo peso, dicono fonti pidielline, non supererebbe il 2/4 per cento.
Sparuto il gruppo di finiani che ieri è sfilato davanti al presidente ma telefono rovente tra tutti gli altri ex aennini, veri destinatari dell’ultimatum del presidente della Camera. Una sorta di «chi sta con me?» dagli esiti incerti. Mentre sono scontate le adesioni di Fabio Granata, anima giustizialista del Pdl, e di Benedetto Della Vedova, ex radicale ed ex azzurro ma iper laicista e quindi allergico alle posizioni da lui ritenute troppo clericali del Pdl, su quelle di molti altri si aprono parecchi punti interrogativi. Potrebbero seguire Fini Souad Sbai, deputata italo-marocchina; l’ex leader del gruppo musicale di destra 270bis Marcello De Angelis; Donato Lamorte, parlamentare che custodisce l’archivio storico del defunto partito erede della Fiamma; il fiorentino Riccardo Migliori; Aldo Di Biagio; il calabrese Giovanni Dima; il siciliano Giuseppe «Pippo» Scalia e l’ex arbitro di calcio Marco Zacchera. Finianissimo, invece, il presidente della commissione Lavoro di Montecitorio Silvano Moffa, già presidente della provincia di Roma. Molti di loro condividono la critica allo schiacciamento del partito sulle istanze leghiste e sognano un maggiore smarcamento da Bossi che, dice un anonimo malpancista, «fa il bello e cattivo tempo».

Complice il ministro Tremonti che ha in mano i cordoni della borsa. Al Senato, invece, Fini può contare sull’appoggio di Andrea Augello, potentissimo romano, Mario Baldassarri, ex viceministro dell’Economia, Giovanni Collino, Cesare Cursi, Maria Ida Germontani e Antonio Paravia.

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