LA PAURA DELLE NOTIZIE

Spionaggio, sciacallaggio, calunnie degne del dottor Goebbels. Sono questi - o altri d’analoga pesantezza - i termini e i riferimenti che i notabili diessini usano nel riferirsi alle intercettazioni su Unipol. Pubblicate oltretutto dal Giornale, che appartiene alla famiglia Berlusconi: e che per questo - la conclusione sembra ovvia - dev’essere a libertà limitata. Se il Corriere della Sera rende noto, grazie a fonti d’informazione esclusive e non disinteressate, un «avviso a comparire» per il Presidente del Consiglio, fa il suo mestiere. Se il Giornale rende noto il contenuto di colloqui tra Fassino e Consorte diviene partecipe d’una losca manovra diffamatoria. Fassino e D’Alema riconoscono, bontà loro, d’aver commesso errori: ma non accettano «campagne di delegittimazione». Riemerge qui una strana pretesa della sinistra: ammette le critiche, ma solo se vengono dal suo interno, o da ambienti contigui. Le critiche dello schieramento opposto sono insinuazioni o mascalzonate.
Alla base della polemica diessina è l’idea che la divulgazione delle intercettazioni sia stata non solo formalmente scorretta ma sostanzialmente ingiusta. Si vuol far credere agli italiani che l’atmosfera politica sarebbe più ossigenata e limpida, che il dibattito sarebbe più concreto e leale qualora non si sapesse nulla dell’esultanza di Piero Fassino perché «abbiamo una banca», e via dicendo. Ma gli italiani non ci credono. Capisco - e non sempre condivido - i dotti discorsi sulla privacy e sull’esigenza di tutelare la confidenzialità dei contatti che i parlamentari hanno. La maggioranza di centrodestra vuol dare, con eccellenti intenzioni, una disciplina più severa all’uso delle intercettazioni. Ma rimango del parere che le persone comuni preferiscano sapere ciò che in certi luoghi si trama sopra le loro teste.
Il captare e diffondere conversazioni personali può rivestire in molti casi gli aspetti sgradevoli del volgare pettegolezzo. Ma è maldicenza futile, di nessuna rilevanza pubblica, ciò che si dicevano Fassino e Consorte, ciò che si dicevano Fazio e Fiorani? La smentita a questa tesi riduttiva sta negli avvenimenti cui abbiamo assistito e assistiamo. Unipol: nell’opposizione è una bufera di semipentimenti, di quasi confessioni, di «sarebbe stato meglio che...». Banca d’Italia: il santuario dell’economia nazionale viene rivoltato come un calzino, e il nuovo governatore ha la missione di restituirgli il prestigio perduto. Possiamo parlare, se non proprio di cataclismi, certo di rivolgimenti importanti. Tutto per qualche chiacchiera che avrebbe dovuto rimanere rintanata nei faldoni giudiziari?
Forse scandalizzerò i garantisti a oltranza, ad alcuni dei quali piacerebbe che si aspettasse sempre la famosa sentenza definitiva. Un’attesa di una decina d’anni prima d’azzardare notizie. Troppi, mi sembra. Ecco perché sono del parere che la pubblicazione delle intercettazioni- purché di autentico ed evidente interesse per la collettività - sia sacrosanta. Fermo restando che questa mia è una considerazione da uomo della strada, contestabilissima dagli esperti di diritto. In un Paese nel quale, giorno dopo giorno, affiorano retroscena torbidi e intrighi sotterranei, le indiscrezioni colte al volo sono salutari brecce che consentono di dare un’occhiata in certe tenebre inquietanti.

Possono derivarne inconvenienti, e anche danni a persone oneste. Ma tra i due opposti pericoli, quello d’un pregiudizio agli innocenti e quello d’una copertura del malaffare, il secondo mi sembra, oggi come oggi, più grave.

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