Scena uno: la sala di attesa di un aeroporto, il banco del gate davanti agli occhi, alcune persone in coda, altre sedute. La telecamera in soggettiva inquadra la signorina addetta al controllo dei biglietti, poi il varco che conduce al finger, il braccio-tunnel con cui i passeggeri lasciano l'aeroporto. Il tunnel ora è di fronte a noi. In fondo, il portellone dell'aereo è aperto e si distingue il profilo di una hostess.
Sono le prime immagini della terapia. Tutto avviene in maschera. Il check in, il finger, il portellone, sono le produzioni virtuali riportate dalla mascherina che si indossa. Bisogna rimanere seduti su una poltroncina molleggiata che consentirà al dottore di farla sussultare se c'è turbolenza in volo. Il medico è Antonio d'Ambrosio, neuropsichiatra esperto in terapia cognitivo-comportamentale e nella cura delle paure, professore di riabilitazione psichiatrica all'università di Genova. I pazienti sono tutti coloro che hanno il terrore di staccare i piedi da terra, di sperimentare quello che la mente considera impossibile, il sogno di Icaro. E lasciarsi andare, sapersi affidare. Secondo l'ultima ricerca della Social Travel Community PiratinViaggio, tre italiani su cinque avrebbero paura di volare, anche se il 60% lo nasconde.
IL PERCORSO ANTI ANSIA
Alcune compagnie aeree organizzano corsi di gruppo per superare la paura, ma all'aeroporto Napoli Capodichino esiste un centro specializzato che affronta l'ansia in maniera sperimentale: il viaggio all'interno dell'aerofobia, un panico più frequente di quanto si possa immaginare, parte dalla maschera in tridimensione perché è soprattutto qui, nell'esperienza del mondo virtuale, che si svolge la cura. Virtuale non significa artificialità, ma ausilio per riprodurre il reale: questa terapia dà «al soggetto la percezione della propria capacità di affrontare con successo una situazione ansiogena, gli fa capire che ha tutto quello che serve per viverla, aiutandolo a potenziare e scoprire la sua padronanza nel gestire la sua ansia in questa e in altre situazioni» spiega D'Ambrosio.
Lo studio del Cbt Clinic Center si trova in una palazzina accanto all'ingresso dell'aeroporto Capodichino di Napoli. Il cammino della cura non può prescindere da questo luogo. Chi vuole guardare negli occhi il proprio mostro affronterà il percorso virtuale, ma anche quello reale, dalla fila al check-in, al controllo bagagli, fino all'attesa al gate. Indossando specifici pass con cui sono riconoscibili dal personale, i pazienti provano la sensazione di partire a ogni seduta.
«La terapia dura sei sedute» spiega D'Ambrosio, che nel lavoro è affiancato da una riabilitatrice psichiatrica e da una psicologa psicoterapeuta. «Con una seduta al giorno possiamo portare una persona a volare in una settimana». Questa urgenza capita per le situazioni di lavoro, dove un viaggio diventa un incubo. Ma i pazienti sono i più svariati: un genitore che rischia di perdere la laurea all'estero di un figlio, una famiglia intera che non ha mai preso l'aereo, la tifosa del Napoli che non può seguire la squadra in trasferta. Doversi recare dal dottore in uno studio che si trova in un aeroporto è già, di per sé, l'inizio della terapia. Dalla finestra della stanza si può vedere l'animato mescolio di passeggeri e mezzi del piazzale di Capodichino ogni attimo in cui si sposta lo sguardo.
Torniamo alla maschera, nella realtà virtuale. Ora la hostess è davanti a noi, ci chiede il biglietto, alle nostre spalle c'è il finger che conduce nuovamente alla sala di attesa. Ma la luce è sempre più lontana, ormai siamo all'interno dell'aereo, il portellone si chiude. A questo punto inizia l'esperienza virtuale del volo. Davanti a noi il sedile del vicino di fila, alla sinistra il finestrino.
ALLACCIATE LE CINTURE
L'aereo si prepara al decollo, siamo accompagnati dalle leggere vibrazioni della fase di spinta. La pulsione dei motori aumenta, come la sensazione di tremare, infine lo stacco, con il piano della pista che si inclina. Seguono tutte le esperienze di un volo: le turbolenze, il bambino che piange, i brusii, gli stimoli sonori inviati dal personale di bordo, infine l'inizio della discesa e l'atterraggio. «La terapia cognitiva comportamentale è quella che si utilizza con maggior successo nel trattamento delle fobie», continua a ragionare D'Ambrosio, di nuovo davanti a noi. «Eravamo alla ricerca di un metodo per abbreviare i tempi mantenendo l'efficacia. Ci siamo imbattuti nella realtà virtuale e abbiamo sviluppato un protocollo con l'aiuto degli ingegneri dell'università Federico II.
Nel 2016 abbiamo messo in piedi un trattamento sperimentale, abbiamo poi fondato una start-up e abbiamo partecipato alla Start Cup Campania. Infine abbiamo inviato la ricerca all'aeroporto di Capodichino». Il progetto ha ottenuto la menzione speciale per l'impatto sociale alla Start Cup e il Premio Innovazione allo Smau di Milano nel 2018.
A due anni dalla nascita della sede aeroportuale il sistema è ormai collaudato e nello studio del Cbt al Vomero, in città, la realtà virtuale si applica a una serie di altre paure come: fulmini, parlare in pubblico, ragni, claustrofobia, altezza.
Durante la prima seduta si svolge «una valutazione psichiatrica con test che vengono riveduti alla conclusione della terapia». Il paziente impara alcune tecniche anti-ansia per gestire lo stress, «e poi facciamo provare la realtà virtuale. Quando il soggetto si calma in una fase, passiamo alla successiva. Qualcuno tollera meno bene il visore, e allora partiamo dalle immagini bidimensionali ad alta definizione. Il paziente vive la realtà traumatica virtualmente, che è molto di più rispetto all'immaginazione, perché nell'immaginazione ci possono essere idee che interferiscono, pensieri parassiti. Con la realtà virtuale possiamo ricostruire lo scenario in modo molto verosimile, verificandone il senso di "presenza"». Il futuro di questo metodo è quello di «coinvolgere il maggior numero di sensopercezioni». Contemporaneamente «si applica la cosiddetta esposizione in vivo, quindi il soggetto viene accompagnato direttamente in aeroporto». La terapia si conclude con un volo vero. Si può andare in solitudine o accompagnati da un terapeuta. «Nel 90% dei casi le persone partono da sole o con un partner. Oppure con la famiglia. Sono belle soddisfazioni. Una fobia intacca a fondo tutta la personalità, come se ci si portasse appresso una sensazione di debolezza. Lavorare sulle fobie significa riequilibrare il benessere psicologico del soggetto». Superata la paura, si ha «una sensazione di maggiore libertà avendo riacquistato l'autonomia, che significa potenziamento della propria identità».
«A mio parere - conclude lo psichiatra - la realtà virtuale è lo sviluppo della psicoterapia, non nel senso che stravolge la tecnica, ma che la rende più efficiente, più breve».
L'idea è quella di applicarla presto al «disturbo ossessivo-compulsivo, ai disturbi del comportamento alimentare e ai disturbi depressivi. Immagino che sia il futuro della psicoterapia e della riabilitazione psichiatrica. La psicoterapia 4.0 lascia il lettino e usa il visore».
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