Le paure di Prodi dietro i diktat a Ds e Margherita

Francesco Damato

Sta diventando alquanto penoso lo spettacolo del maggiore partito della sinistra italiana che per sfuggire dopo la caduta del comunismo alla prospettiva di una ricomposizione dell’unità socialista si è infilato nel sacco di Romano Prodi. Dove si scuote con la scompostezza e la drammaticità di quel pollame che nella Turchia alle prese con il pericolo della pandemia viene sotterrato ancora vivo e coperto di calce.
Se non vi piace questa immagine avicola, ve ne giro un’altra proposta da Francesco Merlo ai lettori della insospettabile Repubblica. Che è un giornale del quale Prodi si fida a tal punto da averlo scelto per la costosa inserzione pubblicitaria con la quale, su sfondo giallo, ha protestato per lo «smarrimento dello spirito unitario» delle elezioni primarie di ottobre ed ha chiesto impegni più stringenti per la nascita del nuovo «Partito democratico». Dove Ds e Margherita dovrebbero sciogliersi e unificarsi.
Merlo ha paragonato Prodi alla «vedetta della caccia al tonno» che ha «avvistato il pesce dell’Unipol», cioè il partito dei Ds alle prese con l’affare più ambizioso e temerario tentato dalle cooperative rosse scalando la Banca nazionale del lavoro. Avvistata la preda, Prodi avrebbe offerto «l’esca della solidarietà» brandendo però «dietro la schiena l’arpione del Partito democratico ora e subito, del listone unico anche al Senato».
Nello stesso giorno e nella stessa pagina della Repubblica, a dire la verità, Massimo Giannini ha visto nell’affare Unipol e nel sostegno a lungo ricevuto dai post-comunisti non il pesce diessino da fiocinare descritto da Merlo, ma «una clava brandita contro i Ds» dal presidente del Consiglio. Il quale vi avrebbe fatto ricorso con «un’operazione disperata e irresponsabile», tanto da «perdere il sostegno di Casini e persino l’appoggio di Bossi». Ma, versato con questo passaggio il suo scontato contributo alla religione dell’antiberlusconismo, che nel giornale fondato da Eugenio Scalfari prima si è aggiunto e poi ha sostituito l'anticraxismo, forse dovuto anche per la sua carica di vice direttore, anche Giannini ha dovuto muovere a Prodi dure contestazioni. Egli lo ha accusato, fra l’altro, di «sbandamento inquietante» sulla strada del nuovo partito, che da «punto di sintesi tra Ds e Margherita e punto di forza per tutta l’Unione» è diventato «un elemento di conflitto e un fattore di destabilizzazione».
Dietro l’accelerazione chiesta e tentata da Prodi con la formula dell’unità «subito e ovunque» Giannini ha visto senza mezzi termini anche «un modo per negoziare al rialzo la distribuzione dei collegi e dei seggi nel prossimo Parlamento», cioè per strappare opportunisticamente ai Ds e alla Margherita, ma soprattutto ai Ds, le candidature necessarie a fargli passare quello che il vice direttore della Repubblica ha definito «un astioso complesso di minorità». E che Merlo ha chiamato «la sindrome del ’98», la paura cioè di non disporre, in caso di vittoria elettorale, di un gruppo di parlamentari capaci per numero e affidabilità di impedire ai vari D'Alema e Marini di sfrattarlo da Palazzo Chigi, come accadde appunto nel 1998 con una crisi formalmente provocata da Fausto Bertinotti.


Questo, quindi, è Prodi anche agli occhi di chi ne sostiene ancora la candidatura alla guida del governo, e si è speso per fargli superare nel migliore dei modi le primarie del 16 ottobre. Si può ben dire ai Ds, costretti a districarsi tra liti e compromessi al ribasso: ve lo siete cercato e meritato.

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