Politica

Paure, trame e pentimenti nella diaspora della Quercia

La rottura fra Veltroni e Cosa rossa mette in crisi chi ha lasciato i Ds. E qualcuno è già pronto a tornare chiedendo scusa

da Roma

Non tutti i comunisti hanno la fortuna di Willer Bordon. Con una memoria come la sua, può capitare di essere stato per undici anni sindaco del Pci a Muggia (Trieste) e dimenticare nel lungo profilo della Navicella parlamentare di fare cenno al passato di funzionario del Partito (in aspettativa fino all’ultimo scioglimento).
Essere comunisti in Italia è sempre stato un tratto di distinzione. Politica, e soprattutto personale. La celebre «doppiezza» togliattiana essendosi manifestata nella capacità di accettare di tutto per il bene del partito (i militanti) e fare di tutto per il bene proprio (il gruppo dirigente). Motivo per il quale la diaspora da quello che fu il Pci-Pds-Ds è fenomeno da lettino psichiatrico. Caso esplicativo è quello segnalato dal deputato (ex senatore) Aleandro Longhi, figura specchiata del Pci genovese. «Ero per strada l’altro giorno - racconta - e vedo un vecchio militante dei tempi d’oro con il pacco dell’Unità da diffondere. Credo che sia rimasto l’unico in Italia... "Ma lo sai che non è più l’organo del Pci?", gli faccio. "Hai sempre voglia di scherzare", risponde. "Guarda che adesso è di centro: sostiene il Pd di Veltroni e degli ex democristiani", insisto. "Sì, va bene, ma se poi vinciamo torniamo il grande partito"». Inutile insistere. Per certi militanti l’abbandono della Chiesa madre e del sogno della rivoluzione è sacrificio impossibile. Diverso il discorso per i funzionari che hanno fatto strada. In pochi hanno fatto come Longhi: «Quando mi sono accorto che andavamo dritti al centro, sono uscito. Due mesi nel gruppo misto, tanto per togliermi sassolini dalle scarpe. Poi sono entrato nel Pdci, il partito della continuità». Anche se adesso entrerà nella Cosa rossa, poco importa.
Il grosso della truppa dirigente che fu del Pci sta invece in queste ore vivendo la storia dell’asino di Buridano: da un lato la mangiatoia di Veltroni, dall’altra l’incerto richiamo del socialismo. Di quest’ultima species si conoscono tre tipi: avanguardisti, spregiudicati e prudenti. Cesare Salvi, guardando avanti, da anni ha fatto chiamare «Socialismo duemila» la propria minoranza ds. Ha scritto un libro, la «Rosa rossa», e peccò persino di vanagloria quando faceva parlare di sé come del «Jospin italiano». Mal gliene incolse. Mai, però, gli è passato per la mente di iscriversi al Psi o ciò che ne rimaneva.
Scelta compiuta invece da Gavino Angius, già comunista di rito strettamente dalemiano, quando ha lasciato i Ds all’ultimo congresso. «Purtroppo pretende oggi di darci lezioni di socialismo», ne lamenta la spregiudicatezza un parlamentare di spicco dello Sdi. Errore che uno come Lanfranco Turci, migliorista emiliano già della Lega Coop, non ha mai fatto, ponendosi da anni come faro del laicismo illuminato e conquistandosi galloni di socialista a prova di bomba. Definizione difficile da applicare per il napoletano Roberto Barbieri o per il fondatore dell’Arcigay Franco Grillini, che si sono intruppati con Boselli assieme ad Angius. Un vero peccato, visto che posti per ricandidarli in Parlamento non ce ne saranno. A meno che non tornino da Walter con il capo cosparso di cenere (ci stanno pensando).
Nulla di grave, rispetto allo psicodramma che vivono in queste ore gli uomini di Fabio Mussi, un prudente postcomunista veltroniano che ha scoperto il socialismo negli ultimi mesi. La sua Sinistra democratica doveva essere lievito della sinistra unita, ma per ora di ingrossato è soltanto il fegato. Speravano di restare il trait-d’-union tra la sinistra bertinottiana e i soliti compagni di una vita, ma la scelta di Veltroni di tagliare i ponti li ha spiazzati. Qualcuno, come Famiano Crucianelli o il sindacalista Nerozzi, ha già fatto dietrofront. Altri, come la capogruppo Titti Di Salvo o la deputata Marisa Nicchi, si stracciano le vesti. «Come può Walter farci questo, lasciarci nelle mani di questi pericolosi comunisti?».
Il bello è che i postcomunisti non si fidano affatto dei comunisti che militano in Rifondazione o Pdci. Seggi a disposizione nisba, e si sa poi quanto poco piacciano i «rinnegati». Mussi ha cercato di rappresentare le difficoltà dei suoi negli incontri della Sinistra Arcobaleno, provando persino a mettere i bastoni fra le ruote a Bertinotti. «I nostri elettori ds faticano ad amare Fausto», ha buttato lì. Oltre a un’alzata di spalle, ha ottenuto soltanto la richiesta di incontro con Veltroni per chiedere venia: «Walter, non lasciarci da soli, è un suicidio collettivo». «Soltanto un modo per stanarlo», interpreta la mossa un altro comunista avveduto, Antonello Falomi, tra i primi assieme a Pietro Folena a riparare nella rete bertinottiana.
Se certi fuoriusciti piangono al pensiero della precarietà, non se la godono neppure molti dei postcomunisti già pronti a tutto per il Pd. Dalemiani e fassiniani, ora che le poltrone in palio scarseggiano, veleggiano verso Veltroni con il vento in poppa. Chi ha anticipato tutti sul tempo, come Peppino Caldarola, oggi se la ride.

Avanti c’è posto, ma su un piede solo.

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