Cultura e Spettacoli

Pavlik, il mito comunista di un eroe fantasma

nostro inviato a Mosca
«Tu insegui dei fantasmi» mi dice Sasha a un tavolo del White Elephant. «Cosa vuoi che oggi dicano nomi come Dzerzhinsky o Mozorov... Guardati intorno, è questa la nuova Russia». Una specie di foresta tropicale fa da arredo al ristorante, una sfilata di macchine d’epoca, MG e Rolls-Royce, Bentley e Morgan, fa da decoro al suo ingresso. Situato al piano terra del Novinsky Shopping Center, dai tavoli della sua sala da pranzo vedi di fronte a te la facciata screpolata del Narkomfin. Venne costruito alla fine degli anni Venti da Mosei Ginsburg e Ignatii Milinis, due piani per 50 famiglie, finestre orizzontali, muri a schermo, tetti piatti: fu il prototipo di tutti i condomini contemporanei, il predecessore della città verticale sognata da Le Corbusier, il modello della sua Unité d’Habitation. Adesso è un rudere semiabitato, che il World Monument Fund vorrebbe restaurare, la vicina ambasciata americana vorrebbe comprare e l’amministrazione cittadina vorrebbe abbattere.
Dzerzhinsky di nome faceva Felix e fu il fondatore della polizia segreta, la lugubre Ceka, ovvero il terribile Kgb. La sua statua dominava la Lubyanskaya Ploshchad, la piazza della Lubyanka, lì dove c’era il palazzo della polizia segreta con annessa prigione, un po’ casa e bottega, insomma. Nel 1991, quando l’Unione Sovietica andò in pezzi e Boris Eltsin arringò i moscoviti da un carro armato davanti alla Casa Bianca, a due passi da quello che oggi è il White Elephant, il gusto iconoclasta dei sudditi riscopertisi cittadini si sfogò su quel simbolo di bronzo. Senza quel monumento la piazza ancora oggi appare come se fosse priva di un suo centro, ma se vai al Parco delle Sculture, a sud del Cremlino, Dzerzhinsky fa ancora la sua bella e porca figura vicino ai busti di Stalin, di Lenin, di Brezhnev, un’immensa discarica di cimeli e miti dismessi della Storia...
Nel Parco delle Sculture quella di Pavlik Mozorov, «il pioniere numero uno dell’Urss», l’eroe bambino, tuttavia non c’è. La mia guida Sasha, che ha poco più di vent’anni, lo considera un simbolo che a un ragazzo non dice nulla. Quanto ai più anziani, per loro è un nome che, avendo assunto nel corso del tempo diversi significati, ha finito con l’avere troppe identità e quindi nessuna. Ma chi era veramente il compagno Pavlik?
La risposta più completa a questo interrogativo è nel libro Comrade Pavlik. The Rise and Fall of a Soviet Boy Hero (Granta Books) di Catriona Kelly, docente di Storia della Russia all’Università di Oxford. Ed è una risposta che, grazie all’accesso da lei avuto agli archivi segreti dell’Fbs, cioè l’antico Kgb, permette di far luce sui complessi meccanismi del potere dittatoriale e sulla costruzione di miti ad hoc per il suo mantenimento.
Nulla nella vita reale di Mozorov, Pavel all’anagrafe, Pasha in famiglia, Pavlik nell’agiografia, corrisponde all’immagine che di lui verrà tramandata, tranne il fatto che fu ammazzato. Figlio di genitori separati, di famiglia contadina della Siberia occidentale, non ancora quattordicenne il ragazzo fu assassinato, insieme con il fratello minore di 9 anni, mentre tornava dall’aver raccolto fragole in campagna nel settembre del 1932. Dell’omicidio furono accusati il nonno paterno e un cugino, in combutta con altri familiari. Fra confessioni e ritrattazioni il processo si concluse con quattro fucilazioni, logica conclusione in un Paese dove la collettivizzazione forzata, la cosiddetta «dekulachizzazione», aveva assunto le proporzioni di una guerra civile strisciante fra le autorità e i contadini da un lato, i piccoli proprietari terrieri dall’altro. Di questo scontro, che significò la distruzione del patrimonio agricolo, l’eliminazione fisica diretta di centinaia di migliaia di persone, indiretta di qualche milione per carestia e deportazione, Pavlik divenne un simbolo, sottoposto a un maquillage fisico-ideologico che vale la pena di raccontare.
Piccolo e scuro di carnagione e di capelli, fu tramandato come alto e biondo. Non particolarmente brillante a scuola, venne trasformato in un primo della classe. Nato e cresciuto nella periferia dell’impero, dove le direttive del potere centrale arrivavano con lentezza e difficoltà, finì con l’incarnare la figura per eccellenza del «pioniere», l’organizzazione chiamata a irreggimentare i più giovani, di cui non faceva ufficialmente parte, se non altro perché, allora ancora agli albori, si sarebbe strutturata soltanto successivamente. Infine, una propensione alla maldicenza, alla calunnia, al pettegolezzo, alla denuncia, tipica di una realtà dove accusare il vicino significava sperare di prenderne il posto, fu perfezionata nella creazione di un modello di comportamento: non solo il piccolo Pavlik si faceva garante con la sua intransigenza delle conquiste del socialismo reale, ma era pronto a tutto pur di difenderle. Persino a denunciare il proprio padre per attività sovversive. Come scriverà Maxim Gorky: «Comprese che una persona che ha con noi legami di sangue, può lo stesso essere un nemico nello spirito, e come tale non va risparmiata». Insomma, il piccolo compagno Pavlik era stato ucciso perché comunista, nemico dei kulachi, esempio di intransigenza a di devozione assoluta alla causa.
Al «pioniere numero uno» vennero dedicate biografie, un film di Eisenstein, commemorazioni pubbliche, temi in classe, veglie nei boschi, nei parchi, nelle piazze. Ma, come spesso succede, per eccesso di zelo la fabbricazione della sua identità sfuggì di mano ai suoi ideatori e dovette essere sottoposta a successivi, ulteriori ritocchi. Il primo riguardò proprio l’elemento falso scelto da Gorky come epitome di vera grandezza: la denuncia del padre. Nata come rivoluzione antiborghese che doveva fare tabula rasa del passato, nell’ideologia comunista c’era effettivamente posto per lo smantellamento dell’istituzione familiare, la fine del dominio dei vecchi sui giovani, il no alle gerarchie naturali. La pratica della delazione era, del resto, uno strumento coercitivo di potere e visto che soltanto al Partito si doveva giurare fedeltà e solo nel Partito era la salvezza, ne conseguiva che se contro il Partito si schieravano tuo padre o tuo fratello andavano considerati nemici da schiacciare.
Solo che negli anni immediatamente successivi alla morte del piccolo Pavlik la figura e l’operato di Stalin assunsero connotati ben precisi. Da un lato le purghe e il Terrore davano vita a un sistema in cui la denuncia era anonima, il segreto era totale, la punizione era collettiva. Non c’era posto per l’eroe solitario che si assumeva l’onore e l’onere di combattere il Male. Era il Partito, era lo Stato che aveva questo compito e nessuno poteva pensare di esserne il surrogato. Dall’altro Stalin era il «piccolo padre», il genitore severo ma giusto, a cui le bambine portavano fiori, il capofamiglia di una nazione. L’idea che qualcuno potesse denunciare sinanco il proprio genitore cozzava contro questa nuova costruzione identitaria, in cui c’era un genitore per eccellenza alla guida dello Stato. Infine, per quanto comunista, Stalin rimaneva un uomo vecchio stampo per costumi, abitudini, eredità: «Quella piccola carogna: denunciare il padre» è la frase che gli venne attribuita allorché il mito di Pavlik, divenuto fastidioso, fu riscritto.
Fatto cadere questo primo mattone, anche quello relativo alla lotta contro i kulachi venne nel tempo abbandonato. Un po’ perché i kulachi erano stati sterminati, un po’ perché nell’industrializzazione del Paese avere un martire contadino stonava. Se il nuovo eroe era Stakanov, l’operaio instancabile, Pavlik doveva essere reinventato quanto a modello di virtù. Così, nel giro di dieci anni dalla morte, il «pioniere numero uno» si trovò ad avere le fattezze dello studente brillante, intransigente, morto per la causa, ma senza che sul perché della morte si insistesse più di tanto. Poi arrivò la guerra, e con la guerra un nuovo colpo fu inferto al mito. Guerra significava segretezza, soffrire e morire in silenzio, rispettare gli ordini, sacrificarsi ai comandi. Che spazio poteva avere un eroe che era stato tale perché aveva parlato, aveva denunciato, non aveva accettato nessuno sopra di lui?
Nel dopoguerra, la destalinizzazione prima, il disgelo subito dopo, via via che si allontanava il ricordo di un’epoca furono il campo d’azione di una nuova, ultima reincarnazione. Che Pavlik continuasse a essere un eroe era un dato di fatto. Era sui motivi che si glissava, senza che nessuno volesse veramente prendersi la briga di rifarsi alla storia, inventata ma comunque ufficiale. Poteva anche capitare, insomma, che qualche insegnante ne facesse a scuola un campione di educazione civica, ovvero il denunciatore del padre in quanto spia nazista... E se qualche studente scriveva nei temi che il suo sogno era «essere come Pavlik Mozorov», gli stessi temi finivano con l’ingenua confessione: «Perciò, come faccio a sapere che cosa realmente fece?». Pioniere della Seconda guerra mondiale, pioniere della Rivoluzione d’Ottobre, Pavlik era ormai tutto. E quindi niente.
Il resto è storia d’oggi, anzi di ieri, compresa la «controstoria di Pavlik» che assicurò, ai tempi del dissenso, quando il regime prese a sfaldarsi, una rilettura della sua morte in chiave di delitto comunista. Pavlik non era stato vittima di un raptus criminale, di un assassinio rituale, di una banda di balordi, di una faida familiare, sul quale il regime aveva lucrato la sua mitologia, ma il cadavere innocente che il regime stesso, per mano della sua polizia segreta, aveva sacrificato sull’altare del complotto, il pretesto che gli serviva per alimentare la propria campagna di collettivizzazione forzata.
Come una sorta di matrioska, il saggio di Catriona Kelly rivela al suo interno tante storie, via via più piccole, che compongono quella immensa di un Paese che nei suoi settant’anni di comunismo subì peripezie a volte inenarrabili. Costruito sui documenti dell’epoca per la prima volta disponibili, su testimonianze e investigazioni, Comrade Pavlik è un piccolo, grande contributo alla comprensione di un regime e di un popolo, nonché la metaforica pietra tombale su un piccolo eroe che non è mai esistito. E che comunque al White Elephant non sarebbe mai andato a cena..

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