Pazzini è uno specchio. La sua storia riflette se stesso e gli altri, mostra il suo volto e la sagoma di Cassano. Pazzini è stato liberato dalle ossessioni del calcio moderno: quella di giocare per forza in una squadra da Champions e quella di dover essere sempre il secondo di qualcuno. È rimasto impigliato in una posizione scomoda dietro Toni e poi dietro Gilardino, costretto a fare più di quello che poteva per provare a essere come il suo titolare. Non poteva farcela e non ce l’ha fatta: l’hanno umiliato, offeso, tradito. Pazzo è il futuro del calcio italiano che il calcio stesso ha tenuto in stand-by: acceso e inutilizzato, pronto e sottostimato.
La convocazione in nazionale è il risarcimento a lui e al domani. È la certezza che c’è una seconda possibilità, che il treno a un certo punto si ferma di nuovo. È l’ottimismo, è la fine di un tunnel. Giampaolo è stato l’unico vero affare del primo mercato al tempo della crisi. È un simbolo: speranza, resurrezione, felicità. Sembrava finito, vecchio a 25 anni, distrutto dalle dicerie e dalle malelingue convinte che fosse un mangiagol, uno incapace di reggere la pressione di una squadra forte.
Le ultime dieci giornate di campionato hanno raccontato che Pazzini è quello che era e che qualcuno aveva dimenticato troppo in fretta: un centravanti di quelli veri, uno che gioca di fronte, di spalle, di forza, di classe. Completo perché segna, salta, prende le botte, le dà, perché tira, accompagna, si trascina due avversari, fa spazio. Uno sereno, come tutti quelli che stanno lì davanti e non si perdono in mezzo alle maglie degli altri. Gli puoi mettere quattro difensori, Giampaolo se ne sta lì, sapendo che è il mestiere suo, questo: l'apice di un'idea, di un modulo, di una formazione. La testa di ponte: ti metti qui e trovi il modo di aprire la strada agli altri. Aspetta il momento giusto. Cioè l’assist di Cassano, che ora si agita dietro di lui, per una volta in penombra, perché Pazzo è arrivato dove Antonio per Lippi non merita. Otto gol di Giampaolo sono il patrimonio suo e nostro, dicono che c’è lui e che evidentemente c’è qualcun altro. «Non ho mai visto uno come Antonio», ha detto Pazzini.
Noi non lo possiamo vedere, noi siamo costretti a immaginarcelo. Lo specchio di Pazzini ha un’immagine nitida e adesso quella sgranata di un calciatore che non sa più che fare. Cassano gioca, segna, passa, esulta, parla. Non si arrabbia, non esagera. È quello che gli avevano chiesto di essere: civile e campione. Però è insufficiente.
Il ct non lo chiama nel momento migliore della sua carriera e non si capisce perché: non è una scelta tecnica, o se lo è, è incomprensibile. Non è una scelta disciplinare, o se lo è, è altrettanto incomprensibile: ha appena compiuto un anno intero di normalità extrapallonara, con la Juventus che forse davvero ora se lo va a prendere perché finalmente lo giudica maturo abbastanza. È antipatia, allora. Legittima, ma forse un po’ eccessiva: di solito si convocano i più bravi, non i più simpatici e Lippi lo sa perché troppe volte hanno accusato lui di non essere un compagnone. Allora? Allora non c’è un perché. Pazzini segna su passaggio di Cassano, poi esulta mettendo indice e medio sotto gli occhi. È il messaggio complementare a quello che faceva Luca Toni quando roteava la mano attorno all’orecchio.
Toni voleva dire «senti che roba», Pazzini dice «guarda che roba», «guardate che cosa so fare», «guardate chi sono». Lo zoom stringe su di lui, su un sorriso appena accennato che racconta la liberazione.
L’immagine si ferma, Giampaolo ha ancora la mano sotto gli occhi, sta chiedendo ancora di guardare perché lo spettacolo non è ancora finito. Si guarda, perché no? È un’immagine tagliata: si vede Pazzo e non si vede Cassano. S’è appena messo in disparte senza fare polemiche.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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