Il Pd abbandona Napolitano pur di rincorrere Di Pietro

RomaAltro che maggioranza spaccata. È il Pd il vero profugo della crisi libica: ostaggio delle sue contraddizioni, stretto tra il pensiero stupendo di veder cadere il governo e la pazza idea di contraddire in questo modo i propri proclami abbandonando nel contempo la rotta tracciata dall’unica presentabile stella polare, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il partito di Pier Luigi Bersani, è paradossale ma fino a un certo punto, esce a pezzi dalla minicrisi della maggioranza, immiserito da un eccesso di realpolitik, come quelle squadre che a furia di giocare di rimessa beccano il gol al 93’. Con in più la beffa di dover recitare sempre e comunque un ruolo da comparsa anche nella commediola dell’opposizione, non proprio un film campione d’incassi.
La giornata di ieri è stato un lungo esercizio di incertezza e schizofrenia nell’ex Bottegone, all’interno della generale implosione dell’opposizione. In mattinata, quando ancora la Lega con i suoi «no» ai bombardamenti in Libia sembra una passabile mina vagante nei mari della maggioranza, il Pd nella caduta del governo un po’ ci spera, ma con l’aria di chi pensa, come il Moretti prima maniera: mi si nota di più se non vengo o se vengo e mi metto in un angolo? Così è l’Italia dei Valori a prendere l’iniziativa, come si confà a un partito da sbarco: all’ora del secondo caffè Antonio Di Pietro annuncia di aver presentato una mozione parlamentare «contro i bombardamenti in Libia perché contesta il metodo e il merito della decisione di Palazzo Chigi». E quello che fino a prova contraria sarebbe il primo partito di opposizione? Traccheggia, ciurla nel manico, a parole invoca il voto del Parlamento ma si guarda bene dal chiederlo davvero con una propria mozione, che sembra come il Godot beckettiano, si aspetta si aspetta e non arriva mai (e intanto gli spettatori sonnecchiano).
Del resto in questo fermo immagine la situazione del Pd appare tutt’altro che facile. In caso di showdown a Montecitorio il Pd potrebbe dar corpo alla propria coerenza, votando con la maggioranza e il Terzo polo (a sua volta chiaramente «interventista») prendendosi così la responsabilità, davanti all’elettorato di centrosinistra, di tenere in vita l’esecutivo. Oppure potrebbe dire no ai bombardamenti in Libia assieme a Idv e Lega, mettere in mutande il governo ma a costo di tradire la propria posizione favorevole alla missione in Libia nel quadro della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell’Onu; e soprattutto (colpo di scena!) sancendo la rottura con il Capo dello Stato, che a sua volta martedì ha benedetto i bombardamenti della Libia. Ciò che, vale aggiungere, è costato già a Napolitano la fatwa della sinistra estrema: «Sono stato molte volte d’accordo con il capo dello Stato, ma adesso dissento con molta sofferenza», dice Nichi Vendola. «La decisione del governo di inviare gli aerei militari per bombardare la Libia, sostenuta anche dal presidente della Repubblica, costituisce una palese violazione della Costituzione italiana», sentenzia Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista. Un bel big bang nella galassia delle sinistre, non c’è che dire. E in tutto ciò Bersani e soci prendono tempo, ma con stile. Sentite Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd in Senato: «Una nostra mozione? Vedremo». Quando? Forse un bel dì...
Poi, nel primo pomeriggio, la situazione si sblocca. La Lega esce dall’audizione delle commissioni congiunte Esteri e Difesa con le polveri bagnate: conferma del no ai bombardamenti, ma fedeltà alle decisioni del governo. Sì, certo, restano alcuni imbarazzi personali (leggasi Roberto Maroni), ma l’esecutivo è salvo. Sospiro di sollievo nel Pd: psicodramma evitato, la palla resta in un’altra zona del campo. Naturalmente urge salvare la faccia. Lo si fa quasi gratis stigmatizzando la parziale retromarcia del Carroccio: «La spada di Alberto da Giussano è dritta a Radio Padania, ma quando arriva a Roma si flette davanti a Berlusconi», ironizza perciò Bersani.

«Come previsto, la Lega prima fa la voce grossa per fare bella figura con gli elettori, poi si cala le braghe», aggiunge il responsabile degli enti locali del Pd Davide Zoggia. Non c’è che dire: perdere è la cosa che al Pd riesce meglio.

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