Qualche anno fa, quando ancora non era il segretario del partito, a chi gli chiedeva come sarebbe andata questa o quella votazione Pier Luigi Bersani amava rispondere con una battuta scaramantica: «Se dipende da noi, perdiamo di sicuro. Se invece gli altri ci danno una mano...».
A Bersani fortunatamente è rimasta una certa ironia, ma non per questo le sconfitte si sono fatte più rare. Anzi. Secondo una battuta abusata ma, ahinoi, efficace, il Pd non s’accontenta di perdere le elezioni: perde anche le primarie. Con un’aggravante però: le primarie sono state volute proprio dall’Ulivo.
Questa infernale macchina fu escogitata per dare a Romano Prodi quel consenso popolare che da solo non riusciva ad ottenere: così i partiti del centrosinistra si misero d’accordo e portarono i loro militanti nei gazebo a votare per il Professore. Ma, come in un classico racconto dell’orrore, la macchina infernale s’è ribellata al suo geniale inventore, e ha cominciato a funzionare da sola: e allora, per il Pd, sono cominciati i guai veri. In Puglia, per due volte, Nichi Vendola ha sbaragliato alle primarie il candidato ufficiale del Pd; a Milano, Pisapia ha mandato al tappeto l’establishment democratico ambrosiano; a Cagliari ha stravinto il giovane e sconosciuto candidato di Sel; a Napoli le accuse reciproche di brogli hanno costretto i due candidati più votati a ritirarsi dalla competizione (con il risultato che la città è andata al valoroso Giggino De Magistris). E a Genova, infine, le due premières femmes del Pd ligure sono state eliminate d’un sol colpo dal vendoliano Marco Doria.
Vittima delle sue stesse macchinazioni, la sinistra italiana ha con la sconfitta un rapporto tutto speciale. Con la sola eccezione del 1996 (la vittoria del 2006 è stata davvero troppo effimera per entrare nel conto), è dalla caduta del fascismo che la sinistra perde regolarmente tutte le elezioni politiche. Nel vecchio Pci esisteva, a questo proposito, uno specifico rito di purificazione e di autoassoluzione: si chiamava «analisi del voto» e consisteva in lunghe, fumose riunioni nel corso delle quali si «aggiornava l’analisi», in attesa della sconfitta successiva. I figli e i figliastri del Pci non hanno perso l’antica abitudine: e, infatti, anche Bersani ha preannunciato una «severa riflessione» sui risultati di Genova, mentre i dirigenti locali del partito si sono dimessi (non è chiaro però se irrevocabilmente) sostenendo che «tutta la dirigenza del partito deve fare subito una severa autocritica al proprio operato». Proprio così: «autocritica», come ai tempi di Stalin.
La sconfitta, così a lungo e intimamente frequentata, ha generato a sinistra un vero e proprio culto. Come quelle sette che trovano nella persecuzione le ragioni della validità della loro fede, allo stesso modo la sinistra italiana ha trasformato la sconfitta in un certificato di nobiltà. Se si perde, è perché non si è scesi a compromessi. Chi vince, al contrario, se non è corrotto lo diventerà, perché è questa la natura perversa del potere. Lo sconfitto, invece, ha l’aura del martire e le stimmate del perseguitato: ma un giorno (è questo il premio di consolazione per tutte le Caporetto) le sue idee trionferanno. Le sconfitte recenti del Pd raramente riescono a fingere tanta nobiltà: più spesso si perde per incapacità, per inettitudine, per cecità e per mutismo. Il Pd è pressoché del tutto scollegato dall’Italia reale, di cui fatica a riconoscere persino i contorni, figuriamoci le tendenze. Come ha scritto magistralmente lo scrittore Francesco Piccolo sul Corriere, «la sinistra è come mia zia»: antica più ancora che vecchia, inutilmente colta, refrattaria ad ogni cambiamento, ostile al futuro e spaventata dal nuovo.
Il problema, ormai, non è più quanto essere «riformisti» o quanto essere «radicali», quanto guardare alla Camusso o a Vendola, quanto flirtare con Casini o quanto appoggiare Monti. È che proprio non si capisce di che cosa stiano parlando, i democratici. Che cosa vogliono, che cosa pensano, a chi si rivolgono.
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