Il Pd è già allo sbando: vuole la testa di Silvio ma non sa che farsene

RomaOra che ha vinto, il centrosinistra non sa bene che fare. E vede una strada piena di incognite davanti a sé.
La mossa del day after, con la richiesta in aula delle dimissioni del premier, era in qualche modo un rito obbligato, utile ad andare in onda sui telegiornali con un messaggio chiaro (Berlusconi ha perso e noi siamo i vincitori) per gli elettori. Nessuno nel Pd crede realmente che Berlusconi pensi a farsi da parte, né che a breve possa esplodere la maggioranza e aprirsi una crisi di governo. E l’appuntamento con la famosa «verifica di maggioranza», fissata la settimana dopo i referendum (sui quali il Pd si impegnerà in prima linea, nella speranza di «dare un altro colpo al premier» e di non lasciarne l’eventuale merito a Idv e Sel), non desta grandi speranze nell’opposizione: «I numeri per ora li ha», dicono, e figurarsi se con questi chiari di luna i parlamentari oggi in maggioranza hanno voglia di correre il rischio di andare a elezioni anticipate, e di perdere probabilmente il proprio sudatissimo seggio.
Dunque l’opposizione naviga a vista, in attesa di vedere che accadrà dall’altra parte della barricata, ma con l’idea pragmaticamente bersaniana che - passata senza prevedibili scosse la verifica di giugno - si andrà tutti in vacanza. Il passaggio rischioso potrebbe arrivare in autunno, quando il nodo della manovra lacrime e sangue giungerà al pettine: e lì, si pensa al Nazareno, la maggioranza potrebbe davvero implodere. Il pericolo che Bersani vuol cercare di evitare ad ogni costo è quello di rimanere incastrato nel tante volte evocato «governo di transizione» che in caso di crisi potrebbe materializzarsi. Un governo chiamato a mettere il proprio timbro su quella manovra durissima da 40 miliardi, invocata ieri anche dal Governatore Draghi, con un Pd pressato per assumersi le sue «responsabilità» dal Colle, dall’establishment economico, e da chi al suo interno pensa che possa essere l’occasione per tornare in gioco. Per questo il leader Pd mette le mani avanti, e nell’intervista di ieri a Repubblica lo fa capire bene quando spiega che, in caso di dimissioni di Berlusconi il suo partito sarà disponibile, al massimo, a «cercare in Parlamento, in una fase molto stretta di poche settimane, una nuova legge elettorale». Una cosa Bersani ha ben chiara, però: la vittoria di proporzioni inaspettate non va sprecata ricominciando, secondo la coazione a ripetere della sinistra, a incartarsi in risse interne su alleanze, progetti, candidati. Un concetto espresso a chiare lettere ieri anche da due «giovani speranze» del Pd come Nicola Zingaretti e Matteo Renzi. «Se le beghe interne al Pd non saranno definitivamente spazzate via dal risultato elettorale, sarà il Pd a essere spazzato via», avverte il presidente della provincia di Roma, implorando «meno attenzione agli “schemini” e più ai progetti». Mentre il sindaco di Firenze, ancor più tranchant, chiede che si smetta di «giocare all’allegro chirurgo delle coalizioni» e di pensare che «un inciucio, un intrigo, un accordo col terzo polo ci salveranno». Non è difficile riconoscere dietro le parole di Renzi l’identikit di D’Alema, che secondo un parlamentare lombardo del Pd «pensa di nuovo ad un gioco di sponda con Casini, per mandare lui a palazzo Chigi e sé medesimo al Quirinale».

Già, perché anche la corsa al Colle è già cominciata, e quanto scalpiti Prodi lo si è capito lunedì quando il Professore (dopo aver poco tempo fa dato per morto il Pd) si è fiondato inatteso sul palco di Bersani, per poi materializzarsi ieri a Bankitalia e al ricevimento al Quirinale.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica