Politica

Il Pd giustizialista stavolta non si salva

I democratici pieni di grane restano manettari. Ma la politica deve fare fronte comune sulle inchieste o soccomberà Il partito si opponga alle toghe per costruire con il Pdl il futuro del Paese

Il Pd giustizialista  
stavolta non si salva

Non sono stati i magistrati ad abbattere la Prima Repubblica nata dalla Resistenza e a sciogliere i grandi partiti storici. Non sono state le inchieste e gli avvisi di garanzia, la gogna mediatica e il carcere preventivo a distruggere la democrazia rappresentativa in Italia e a spostare il baricentro della vita pubblica dal Parlamento alle Procure: sono stati i politici a scegliersi il suicidio, dividendosi fra «onesti» e «disonesti», rinunciando a difendersi per timore dell'opinione pubblica o per viltà o per meschina convenienza, appoggiando le inchieste sull’avversario nella speranza di trarne un vantaggio politico, nascondendosi dietro alla «società civile» o al «governo dei tecnici» e in definitiva abdicando al proprio ruolo di classe dirigente.

Oggi la situazione non è diversa: non però perché si moltiplichino le inchieste (che sono invece una costante della Seconda Repubblica, al pari delle campagne mediatiche anticasta), ma perché il tramonto del berlusconismo riporta all'ordine del giorno, per la prima volta dal ’92-’94, la ricostituzione di un ordine politico democratico imperniato sulla centralità dei partiti e del Parlamento.

Il Partito Democratico, che storicamente ha lottato a lungo per questo esito positivo della crisi italiana, non può non sapere che l’ostacolo principale al ristabilimento di un giusto equilibrio dei poteri risiede in quei settori della magistratura che, a torto o ragione, ritengono necessario l’esercizio di un controllo di legalità permanente sull’attività politica.

Per lungo tempo la sinistra s’è trincerata dietro Berlusconi: di fronte ad un avversario così potente, vittorioso e discusso, la scorciatoia giudiziaria poteva tornare utile. I magistrati dunque andavano appoggiati perché indagavano sul Caimano. Neppure il fatto clamoroso che il secondo governo Prodi sia caduto per un’inchiesta di De Magistris, poi rivelatasi a dir poco inconsistente, ha convinto la sinistra a ritirare la delega in bianco rilasciata ai pubblici ministeri.

Oggi che una serie di inchieste cinge d’assedio il Pd, avvicinandosi colpo dopo colpo al cuore del partito, l’imbarazzo non riesce ancora a sciogliersi in analisi e iniziativa politica. La parte peggiore, incarnata nell’isteria manettara di Rosy Bindi, è convinta che i magistrati vadano difesi a prescindere, perché così si conquistano popolarità e voti. La parte migliore, che si ritrova nella parole di Bersani, s’illude di vivere in un «Paese normale» e dunque proclama la piena fiducia nell’operato della magistratura. Ma si sbagliano entrambi, perché il nostro non è affatto un Paese normale, e fra le sue anormalità c’è senza dubbio l’esondazione politica dell’azione giudiziaria, che, selettivamente, colpisce nei momenti cruciali questo o quel partito, o corrente, o leader.

Perché nessuna Procura indaga su quell'armata Brancaleone che è l’Idv di Di Pietro? E perché secondo i magistrati di Bari l’assessore Tedesco dovrebbe andare in galera, mentre Nichi Vendola, che l’ha nominato, è stato cancellato dall’inchiesta? E perché proprio adesso, alla vigilia di elezioni politiche unanimemente considerate decisive, si accendono i riflettori sul Pd, il maggior partito d’opposizione? E perché le inchieste puntano esplicitamente su D’Alema (attraverso la Fondazione Italianieuropei) e su Bersani (di cui Penati è stato fino all’anno scorso il coordinatore della segreteria), cioè sull’uomo forte del partito e sul candidato in pectore a palazzo Chigi?

Offrire il collo al boia, per invocarne la clemenza o per accondiscendere alla folla urlante, non è un buon modo per salvare la testa. E per testa, oggi come nel '92-'94, s’intende la legittimità dei partiti a guidare il cambiamento e a costruire insieme un’alternativa democratica a Berlusconi (Alfano o Bersani non fa differenza). Una parte della magistratura contesta questo esito, e intende ostacolarlo perché ritiene che la classe politica non sia moralmente qualificata per governare il Paese. Tutta la classe politica, senza differenze.

Che questa pretesa della magistratura abbia un fondamento (la corruzione indubitabilmente esiste) o che sia un puro disegno di potere, non importa: finché la politica si presenterà divisa di fronte alle inchieste, sarà destinata a soccombere.

Al Pd, che è l’architrave dell’opposizione e domani potrebbe esserlo del governo, spetta il compito di pronunciare finalmente una parola chiara.

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