da Roma
Potrebbero farlo risalire sull’autobus prima che vada in rottamazione. Ma stavolta non lo farebbero parlare, «deve ascoltare gli italiani», secondo la bell’idea di Pierluigi Castagnetti.
Che fare, allora, di Walter Veltroni? Questo il rovello dei maggiorenti del Pd, il partito nato malato. E se Walter ieri ha avuto pure problemi con i calcoli (renali, dopo quelli elettorali), nessuno vuol fargli la festa. Non sono maturi i tempi, e si rischierebbe di far crollare la già traballante struttura. Il «caro Max» (D’Alema) proprio non vuole: che si beva l’amaro calice per intero, e si ricominci.
Al gioco d’anticipo di Veltroni, che ha proposto il congresso anticipato e rassegnato il proprio mandato ai «big», pretendendo una riconferma di fiducia, D’Alema risponde con un’alzata di sopracciglio: «Non abbiamo bisogno di confuse rese dei conti o conflitti di linee, che io sinceramente non vedo, ma di una discussione seria che non coinvolga solo una ristretta classe dirigente. Mi rifiuto di commentare l’idea del congresso, una cosa che non esiste». È chiaro che se oggi si sentono tutti più forti con Walter, Max lo sia ancora di più. Vuole riprendersi il partito, riorganizzarlo assieme al coriaceo Marini, ripartendo dal territorio, dal suo radicamento: «Serve un’analisi seria - dice -. Articolare nel tempo un processo di discussione e di riflessione politica e proseguire nello sforzo di costruzione del nuovo partito, che pure ha il 33 per cento». Mica bruscolini. Morale: grazie Walter, ci hai provato, ora devi proseguire a farlo, ma basta leggerezze e superficialità. Si ricomincia da me.
La ferrea linea dalemiana si manifesta platealmente con incontri a largo raggio in pieno Transatlantico. Il primo con Beppe Fioroni, luogotenente mariniano, che concorderà sulla linea anti-congresso, perché i congressi «possono essere utili o un inutile alibi». E poi Enrico Letta, e quindi Pier Ferdinando Casini, che sarebbe un’utile sponda. Quando i due si staccano, D’Alema si prenota: «Mi raccomando, dobbiamo vederci e parlare di politica». «Ne avremo di tempo...», la butta sul ridere Pierferdy, che giocherebbe sempre al gioco dei due forni.
La spina dorsale dalemiana si manifesta in giornata anche nel voto sul capogruppo Pd della Camera: viene riconfermato Soro, come voleva Veltroni, ma una cinquantina di deputati disperdono il loro voto: chi votando Bersani, chi scheda bianca. Al piano Marshall dalemiano non partecipa la componente prodiana, che pure con Arturo Parisi segnala un certo scontento. «Sono soddisfatto e insoddisfatto delle scelte di Veltroni», fa sapere il già sanculotto di Prodi, che trova sbagliato piazzare Fassino e Rutelli alla vicepresidenza delle due Camere e chiede a Walter di riproporre formalmente la questione del suo mandato di segretario. «Gli riconosco il coraggio di porre il problema, ma mi auguro che voglia rifarlo al coordinamento e non al caminetto dei big che ha accantonato la proposta. Il risultato elettorale ci impegna a un confronto profondo». Parisi vorrebbe un confronto tra linee che rimetta tutto in ballo, un’altra delle idee che non piacciono a D’Alema (in questo caso, neppure a Veltroni). Nel frattempo, se Di Pietro ha già incassato e ringraziato rimettendosi in proprio, anche i Radicali nel loro piccolo s’incazzano. Pannella e la Bonino scrivono una lettera a Veltroni, minacciando di entrare nel gruppo misto se non fosse loro concesso lo status di «delegazione» autonoma nel Pd. Un incontro pomeridiano con il vicesegretario Franceschini sancisce l’accordo. Ma dato che Pannella ne ha viste di cotte e di crude, lancia nel contempo un appello alla sinistra in rotta (da Bertinotti ad Amato a Prodi) perché ricomincino dal congresso radicale di Chianciano. «Un’assemblea dei mille», esagera garibaldinamente Marco. Qualche anima candida, come il bertinottiano Salvatore Buonadonna, aderisce. Altri ci stanno pensando.
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