RomaPiù che un auspicio è una diagnosi. Clemente Mastella ieri ha spiegato al Giornale che per il Partito democratico l’unica via di salvezza è la mitòsi. Dividere i due patrimoni genetici che convivono nella cellula Pd: da una parte gli ex popolari, che vengono dalla Dc, dall’altra gli ex Ds, ultima filiazione del vecchio Partito comunista italiano. Un divorzio che è stato evocato molte volte negli ultimi mesi, auspicato dai nostalgici, che sono sempre più, e forse già iniziato come la più classica delle separazioni: con la battaglia sulla divisione dei beni e delle proprietà.
La parte dell’avvocato della Quercia se l’è presa Ugo Sposetti, esponente Pd che ancora si fregia della carica di «tesoriere nazionale» dei disciolti Ds. Un compito preso talmente sul serio da avere annunciato la creazione di 55 fondazioni intitolate ai Democratici di sinistra. A loro il compito di salvare i 2.400 immobili che erano dal Pci dalle «eventuali scelte negative» dei politici alla guida del Pd. Dovranno anche raccogliere «tutto il materiale conservato nelle sezioni e nelle federazioni, per non disperde una storia che dura da 60 anni». Cari compagni - questo il messaggio nascosto - non buttate bandiere rosse, quadri di Togliatti e suppellettili delle vecchie sedi perché probabilmente ci toccherà rispolverarle. Saggezza da abile amministratore (Sposetti è quello che ha tirato i Ds fuori dalle peste annullando il debito monstre del partito), che nasconde una decisione tutta politica.
Messaggi da decrittare - secondo la migliore tradizione Pci - anche quelli di Massimo D’Alema che un giorno boccia il Pd e l’altro lo grazia. L’ultima puntata del gioco del gatto e il topo è andata in onda due giorni fa quando l’ex premier ha detto che il progetto del Partito democratico «fatica a prendere quota» e che «ci dobbiamo impegnare tutti di più» per farlo funzionare. Parole chiave «slancio perduto», «decollo fallito» e la soluzione che deve coinvolgere «tutti». Se fosse ancora in edicola il settimanale satirico Cuore e la sua rubrica «Parla come mangi» avrebbe tradotto: «Veltroni con il Pd hai fallito. Fatti da parte o, perlomeno, fai qualche passo indietro».
La posta in gioco non sembra tanto la leadership quanto l’esistenza stessa del Pd. Non è un caso che all’ultima direzione del 2008, poco prima di Natale, Walter Veltroni si sia speso soprattutto per contrastare le nostalgie del passato che stavano riaffiorando. Cartina di Tornasole, manco a dirlo, la questione morale. Poco importa che le inchieste abbiano colpito entrambe le componenti del Pd. Quello che sentono gli ex Ds lo ha incautamente detto in un’intervista - poi smentita - l’ex ministro Luigi Berlinguer sostenendo che noi, ex Pci e loro, gli ex Dc, rappresentiamo culture «profondamente diverse». Il popolare pride è invece andato in scena quando fu arrestato il sindaco di Pescara Luciano D’Alfonso - provenienza Ppi - e Franco Marini accusò gli ex Ds di non averlo difeso. La risposta di Veltroni, come noto, non si è fatta attendere. Ma non si sono dissolti i dubbi degli ex scudo crociato. Perché la nostalgia diessina è ormai bilanciata da un’altrettanto esplicita nostomania popolare alla quale ha dato voce il presidente della Provincia di Trento Lorenzo Dellai. Il Pd? Oggi non è altro che «un moderno partito socialista europeo dove la cultura del popolarismo portata dagli ex margheritini è stata archiviata: è sparita».
Ma la vera novità sono i prodiani. Teoricamente immuni dalla new wave nostalgica in quanto convinti assertori del superamento delle vecchie appartenenze, negli ultimi due giorni sembrano propendere per il divorzio. Hanno anche rinunciato al tradizionale tifo per il bipolarismo. Franco Monaco sembra avere fretta di tornare nella casa popolare quando prende atto del «fallimento della vocazione maggioritaria del Pd». Partito che non ha identità.
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