Fra i dodici apostoli esisteva una gerarchia. Alcuni di loro erano più vicini al Cristo. Pietro era il capo, ma assieme a lui Giacomo e Giovanni formavano una sorta di triade dei primi. In tutti i Vangeli sinottici c'è il racconto della trasfigurazione: Gesù sale su di un monte con i tre apostoli più fidati perché possano assistere all'apparizione di Mosè ed Elia e al loro dialogo con il Signore. Anche nell'ultima, tremenda notte dei Getsemani, il Cristo si apparta con Pietro, Giacomo e Giovanni e chiede loro di condividere la veglia. Mentre Lui prega, loro si addormentano. Vengono perdonati a testimonianza del fatto che la misericordia di Dio è infinita.
Con Radio3, dopo essere stati due anni fa alla tomba di San Giacomo a Santiago di Compostela ed aver seguito l'anno scorso la via Francigena dal Piemonte a San Pietro, recarsi ai luoghi santi di San Giovanni era una decisione consequenziale. Solo che mentre esiste un Cammino di Santiago attraverso il nord della Spagna lungo il quale i pellegrini giungono a piedi alla tomba dell'apostolo Giacomo e ci sono le premesse di un tracciato per seguire camminando le orme dei romei alla volta di quella di San Pietro, niente di simile esiste verso oriente.
Quando abbiamo deciso di fare un percorso alla volta della tomba di San Giovanni e della grotta dell'isola di Patmos dove l'apostolo ricevette la visione dell'Apocalisse e dettò l'ultimo libro del Nuovo Testamento abbiamo dovuto impegnarci a costruire l'itinerario, non il cammino, da proporre ai conduttori che avremmo convocato. Andare nei luoghi giovannei significava visitare la spiritualità orientale e molto presto abbiamo capito che si trattava di un viaggio verso le origini.
Siamo abituati a dare per scontato che la civiltà occidentale abbia nella Grecia classica i propri fondamenti. Atene e Sparta, le olimpiadi, le guerre contro i persiani, Socrate, Platone e Aristotele, l'Iliade e l'Odissea sono i punti di riferimento del nostro sistema culturale. È raro che ci fermiamo a riflettere sul fatto che per il cristianesimo esiste una realtà non diversa. I luoghi dove la nostra religione ha posto le sue radici, ancora prima che Pietro arrivasse a Roma, sono quelli della grecità e dell'ellenismo. È ad Antiochia che il cristianesimo ha assunto il suo nome, ma i luoghi degli Atti degli Apostoli, quasi tutti paolini, sono quelli della Grecia classica e di quella romana, fra Efeso e Corinto, Filippi e Tessalonica, la stessa Atene, dove San Paolo pronunciò il famoso discorso sul dio sconosciuto, e la Macedonia.
Accanto a Giovanni anche Paolo esigeva quindi il ruolo di protagonista dell'itinerario orientale. Ma la spiritualità cristiana dei luoghi verso i quali ci mettevamo in viaggio non si era esaurita duemila anni fa. Anzi. Seppure in maniera conflittuale e a volte addirittura bellicosa, la cristianità che si definisce ortodossa è rimasta in vita fino ad oggi con forme di devozione, rituali e preghiere che ci sorprendono. Un itinerario verso i luoghi di Paolo e Giovanni deve attraversare il tempo quanto lo spazio e lo fa molto più di quanto potessimo immaginare prima di partire.
La formula dei viaggi di Radio3 prevede che coppie di testimoni si alternino di settimana in settimana, con un privilegio del direttore che inizia il cammino e lo porta a termine. La seconda regola conosce molte eccezioni. Quest'anno sono partito dall'Italia il primo maggio con Paola Scarsi e con lei ho visitato il Peloponneso classico, con Corinto, e Atene. Poi sono stato sul Monte Athos, a Filippi, a Patmos e ad Efeso. Linda Brunetta e Alessandro Cannavò hanno visitato le Meteore, i monasteri in cima agli spuntoni di roccia della Tessaglia, Lorenzo Stanzini e Antonio Bozzo hanno incontrato il primo giugno a Istanbul-Costantinopoli il patriarca ortodosso Bartolomeo I .
I siti della classicità, Delfi e Olimpia, Sparta e Corinto, l'Areopago sull'Acropoli di Atene, ci sono familiari. Andare negli stessi luoghi lungo un tracciato diverso ne cambia la prospettiva. Corinto, con la grande agorà dove San Paolo ha predicato diventa il centro della regione. Nel mio viaggio il momento iniziatico è stato l'ingresso al monte Athos, anche se ero già stato in questo luogo misterioso, questa repubblica semi-indipendente dove vivono duemila monaci distribuiti in venti monasteri e in un'infinità di dipendenze. Le donne non sono ammesse per nessuna ragione e anche per gli uomini le visite sono contingentate. A parte i lavoratori, soprattutto edili, che partecipano ai grandi restauri che sono in corso e a qualche ospite, possono accedere solo centoventi persone al giorno e di questi solo venti non greci.
Giorgio Montefoschi e Davide Riondino, insieme a Maurizio Lepri che curava la logistica, mi avevano preceduto. A dorso di mulo avevano raggiunto la cella dove il monaco Spiridione vive con alcuni discepoli. Al mio arrivo ci siamo trasferiti in un'altra cella, quella di Epifanio, il maggior produttore di vino del Monte Athos. Il luogo dove abita è di grande importanza religiosa: si tratta di uno degli edifici dove ha vissuto mille anni fa Sant'Attanasio, il fondatore della regola ancora in vigore sul Monte Athos. Una regola strana, difficile da capire per un occidentale moderno tanto è legata al momento nel quale è stata data e alla semplice richiesta del Cristo di tornare come bambini per entrare nel regno dei cieli. Questo infatti mi è sembrato, che i monaci avessero scelto un affidamento al Signore simile a quello che i bambini hanno per i propri genitori e che proprio questo affidamento, mediato attraverso la Madonna che lì è onnipresente, sia alla base di ogni comportamento. Anche della fede nelle reliquie. Mi è stata mostrata la mano sinistra della Maddalena e nei monasteri si conservano vari frammenti della Vera Croce.
Su tutto dominano due attività: preghiera e lavoro, soprattutto quello edile. All'Athos si viene svegliati alle prime luci dell'alba, d'inverno in piena notte, per pregare e poi assistere alla messa, officiata secondo un rituale che assicurano essere invariato dalla fondazione della Grande Lavra, il primo monastero. Poi il lavoro, a ciascuno il suo, ma soprattutto la ricostruzione e la ristrutturazione dei monasteri e di tutti gli edifici della repubblica. Negli anni Sessanta si era toccato il fondo di una grave crisi. I monaci erano ridotti a poche centinaia e molti degli edifici cadevano a pezzi, si dubitava se il primo millennio dell'Athos sarebbe stato senza seguito e se non fosse opportuno pensare ad un futuro della penisola come zona turistica. Proprio allora cominciò la ripresa, che oggi induce i monaci a lavorare per il domani, immaginato nella forma di millennio.
Dopo l'Athos la meta erano i luoghi giovannei, per arrivare ai quali bisognava traversare il mare. La Marina Militare Italiana ci ha permesso di raggiungerli in maniera non banale, evitando le esperienze turistiche. La nave da addestramento Orsa Maggiore, un bialberi di 28 metri, aspettava a Kavala la piccola spedizione formata da Stefania Scateni, Chiara Galli, Giovanna Savignano, Maurizio Lepri e me per traghettarci fino a Patmos, dov'è la grotta dell'Apocalisse, e poi a Efeso, alla tomba dell'apostolo e alla casa dove visse insieme a Maria madre del Cristo, che secondo il Vangelo Gesù gli aveva affidato pochi istanti prima di spirare: «Donna questo è tuo figlio».
La grotta dell'Apocalisse è un luogo che vibra di misticismo. Uno spazio di pochi metri quadrati, con una grossa colonna di pietra al centro, che sostiene la volta spaccata in modo tripartito nel punto dove l'apostolo ebbe l'illuminazione. Piccole comitive di pellegrini dei posti più diversi, abbiamo visto russi e orientali raccolti in preghiera, vengono al luogo santo.
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