La pena di morte va in scena all’Arsenale

Da Victor Hugo a Beccaria: un doppio piano racconta l’ultima giornata di un condannato

Matteo Failla

Hai paura della morte? È una domanda che abbiamo sentito fare migliaia di volte e alla quale, forse, almeno una volta, abbiamo anche dovuto rispondere, spesso spogliandola involontariamente del tragico peso che porta con sé. E il piano della visuale cambia immediatamente quando a rispondere non è uno di noi, ovvero un semplice cittadino che può solo affidarsi al destino per dare una risposta, quanto piuttosto chi può solo attendere il già noto giorno e la già risaputa ora della sua morte: il condannato a morte. È nel limbo di questa angosciante attesa che si sviluppa L’ultima giornata di un condannato a morte - in scena al Teatro Arsenale con il patrocinio di Amnesty International -, tratto dal capolavoro di Victor Hugo, con protagonisti Luca Fusi (attore e regista), Vladimir Todisco Grande e il pianista Luca Rampini.
Un tema, quello della pena di morte, che può colpire nell’anima se affrontato per mezzo delle parole di Hugo.
«È vero – afferma Luca Fusi – abbiamo allestito questa messa in scena riadattando il testo dello scrittore francese e servendoci del patrocinio di Amnesty international, per sensibilizzare il pubblico sull’argomento anche con l’aiuto dei tragici dati delle esecuzioni nel mondo. La scena è semplice, scarna ma allusiva, il condannato a morte aspetta, e sa benissimo che questa è tutto quello che gli rimane da vivere. Un secondo attore interpreta i vari personaggi, paurosi o bizzarri, che gravitano attorno alle ultime ore del condannato; la musica, anch’essa protagonista del dramma, accompagna o sovrasta l’azione».
Da un lato, nello spettacolo, è presente il testo di Hugo come narrazione della realtà; dall’altro, invece, compare la fredda analisi e la razionalità degli inserti di Cesare Beccaria tratti da Dei delitti e delle pene.
È il doppio piano dello spettacolo. Nella parole di Hugo c’è passione, dolore, è come se si vivesse il sentimento «di pancia». Nella parole di Beccaria invece si ritrova una sorta di freddezza che quasi stona con l’argomento trattato. L’incontro tra questi due piani così differenti genere l’equilibrio sulla scena. Mentre Hugo appassiona lo spettatore colpendolo emotivamente, Beccaria porta alla luce con lucidità i passaggi più intensi di questa lenta agonia verso la morte.
Dopo l’intervista di Paolo Bonolis al condannato a morte Stanley Tookie Williams (ucciso il 13 dicembre scorso) si è tornato a parlare di pena di morte in tv. Il teatro può avere maggiore capacità di sensibilizzazione rispetto alla televisione?
«Credo di sì. Prima di tutto le parole di un grande autore come Victor Hugo in tema di morte non possono passare inosservate, e lasciano un segno maggiore di qualsiasi altra parola detta in televisione. E poi, da uomo di teatro, non posso che essere convinto di questa capacità di sensibilizzazione. L’anno scorso abbiamo fatto una prova dello spettacolo in una scuola, lasciando spazio ad un successivo dibattito.

Coloro che non erano mai andati a teatro erano rimasti stupiti del linguaggio teatrale a loro così sconosciuto, del fatto che l’attore fosse lì per parlare direttamente con loro, con tutta la sua fisicità, pronto ad intuire il loro umore e le reazioni per colpire ancor di più nel fondo dell’anima».

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