Il pensiero «reducista» è vivo, sempre uguale e lotta assieme a noi

Caro dott. Granzotto, non vorrei metterla in ulteriore imbarazzo, ma non la imbarazza la vicinanza di Mario Capanna nell’angolo di fronte a lei? Mo s’è messo a fare pure le prediche peggio di Tettamanzi (il «Sottosopra» del 6 settembre). Quella «globalizzazione democratica e condivisa, multipolare e multiculturale...» E la «biodiversità», che «più ne esiste» e «maggiore è la ricchezza della vita». Ma chi è? Noè? Dica la verità: non le mette, il Capanna, almeno un po’ di orticaria? Che fa, lo sopporta o lo legge niente affatto?
Napoli

Orticaria, caro Sevino? Neanche per sogno. Mario Capanna è fonte indispensabile per chi voglia tenersi aggiornato sul pensiero reducista e a tal proposito i suoi «Sottosopra» risultano assai istruttivi. Ragion per cui, concedendogli lo spazio in pagina, facciamo un servizio al lettore, altro che orticaria. Va aggiunto che il pensiero reducista contribuisce alla formazione del pensiero «sinceramente democratico», del quale occorre necessariamente tener conto se si vuole stare al passo coi tempi e con Rosy Bindi. D’accordo che per il ristrettissimo orizzonte e il leggerissimo pondo servirebbe un entomologo per studiare e approfondire quel pensiero, ma siamo o non siamo fatti per seguir, oltre che la virtude, anche la conoscenza? Il reducismo intellettuale ha poi questo di bello: si riconduce a una aristotelica apodissi: noi che abbiamo fatto il Sessantotto o noi che abbiamo fatto l’eversione o, ancora, noi che abbiamo vissuto da protagonisti gli Anni di piombo (per altro «formidabili», com’ebbe ad ammettere Capanna), abbiamo titoli, autorità e cultura per farvi da maestri di pensiero. Per indicarvi la giusta via da intraprendere in vista di un futuro migliore (il presente può aspettare). Ora non voglio non voglio tediarla stendendo la lista dei molti reducisti che dai quotidiani, dalla radio o dalla televisione quando non proprio dalle cattedre universitarie impartiscono a noi, popolo bue, le loro lectio magistralis. Però sono tanti e tutti hanno assunto quel tono stucchevole e al tempo istesso leggermente infastidito di chi si rivolge a una platea di testoni senza sensibilità né cultura. Di chi, allargando le braccia per la rassegnazione, si vede costretto in nome della Verità che ovviamente detiene, di dispensare «margheritas ante porcos», perle ai porci.
Va da sé che per il loro «vissuto» i reducisti si ergono a vestali del conformismo del luogo comune di sinistra, del quale si avvalgono come strumento dialettico e didattico. Al momento esso è rappresentato dal birignao buonista, dialoghista e confrontista, da quel sentimento querulo che si esprime nel pacifismo, nel multiculturalismo, nel tolleranzismo a oltranza scendendo giù giù fino al paganesimo di Terra madre e alle gabole etico-gastro-enologiche di quei marpioni dello Slow Food. Perché questo è il bello: il pensiero reducista non si evolve. S’adatta. Concetti, punti di forza e lessico reducista s’acconciano sia alla biodiversità come, mettiamo, ai tacchi a spillo di Carla Sarkozy. E ciò senza cambiare un aggettivo, senza bisogno di rimodulare la dottrina, se così vogliamo chiamarla.

Via, ammetta che nemmeno uno poco disponibile come lei è rimasto insensibile al mantra recitato dal nostro Capanna, quel: «Globalizzazione democratica e condivisa, multipolare e multiculturale». Stupendo. Ebbene sì, parafrasando il mio bene amato Giambattista Marino «del reducista è il fin la meraviglia». Le par poco, caro Sevino?

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