Il pentito anti Cav? Per i giudici è un falsario

Nelle motivazioni della sentenza Dell’Utri, la Corte d’appello di Palermo demolisce la deposizione di Gaspare Spatuzza, promosso a eroe dalla sinistra. Le rivelazioni del teste chiave dell’accusa vengono definite "inconsistenti e frutto di inammissibili congetture"

Il pentito anti Cav? Per i giudici è un falsario

Inattendibile. Inaffidabile. Incontestabilmente falso. Sono ai minimi storici le quotazioni del tanto osannato killer pentito Gaspare Spatuzza che sulla scia delle rivelazioni sulla strage di via d’Amelio s’è arrogato il diritto di dire il falso su Berlusconi, Dell’Utri e Cosa nostra. Il fedelissimo dei boss Filippo e Giuseppe Graviano, pluriergastolano da quaranta omicidi, è un bluff. Aveva sei mesi di tempo per dire tutto, e non l’ha fatto. A tempo scaduto ha accusato senza prove il senatore e il premier. La Corte d’appello di Palermo che ha condannato Dell’Utri liquida così la sua partecipazione al processo: «Il contributo offerto è sostanzialmente inconsistente. Le sue dichiarazioni, al di là del risalto mediatico oggettivamente assunto, si sono palesate prive di ogni effettiva valenza probatoria» anche perché frutto di «inammissibili congetture».
Deduzioni, nulla più. Un esempio: «Richiesto di riferire se fosse a conoscenza di interessi economici comuni tra i fratelli Graviano, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, Spatuzza ha risposto sostanzialmente con una mera deduzione quanto mai generica riferita ad un magazzino Standa aperto negli anni ’90-’91 a Palermo nel quartiere Brancaccio». L’unica Standa, precisa Spatuzza, quand’invece ce n’erano altre cinque. Una circostanza sballata, una delle tante che portano i giudici a scrivere: «Il preteso contributo alla verifica delle accuse oggetto del presente giudizio (...) si è connotato invece conclusivamente per la sua assai limitata, se non del tutto insussistente, consistenza oltre che per la manifesta genericità».
Ma ciò che ha caratterizzato il giudizio negativo sul collaboratore di giustizia «sotto il profilo dell’attendibilità (...) è stato soprattutto l’oggettivo ed ingiustificato ritardo con cui i pochi fatti riferiti alla Corte erano stati dallo Spatuzza portati a conoscenza dell’autorità giudiziaria ben oltre il termine dei 180 giorni che la legge sui collaboratori impone per riferire le notizie relative ai fatti di maggiore gravità ed allarme sociale». Come quella, fondamentale, dell’incontro al bar Doney di Roma dove Graviano avrebbe confidato a Spatuzza che il Paese era stato consegnato nelle mani di Cosa nostra da Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Nel controesame di Spatuzza in aula «è emersa con oggettiva chiarezza ed incontestabile nitidezza, l’ingiustificato e rilevante ritardo con cui Gaspare Spatuzza ha ritenuto di parlare di Dell’Utri e Berlusconi, ritardo che induce a dubitare più che fondatamente anche della credibilità delle sue rivelazioni sul punto». Spatuzza s’è difeso dicendo che si era riservato di farlo successivamente al riconoscimento del programma di protezione ed anche perché Berlusconi era tornato al governo con a fianco il ministro Alfano definito da Spatuzza «un vice del signor Marcello Dell’Utri». Tutte scuse. «Con assoluta chiarezza ed incontestabile evidenza traspare che Gaspare Spatuzza, contrariamente a quanto vuol fare credere, non si riservò affatto di rispondere riguardo a determinati argomenti, ma rispose a tutte le domande fornendo informazioni che egli ammette oggi fossero invece assolutamente false».
Alla fin fine Spatuzza «non ha riferito altro che le poche parole che assume di avere sentito pronunciare a Giuseppe Graviano» su Dell’Utri e Berlusconi. La cosa strana è che non chiese mai niente, al boss, con cui era in confidenza. Le sue sono dunque «deduzioni» fondate su elementi non riscontrati. Solo quel «c’è di mezzo» un tale Dell’Utri, circostanza smentita da Filippo Graviano che ha negato di conoscere Dell’Utri. Così come «l’inconsistente valenza accusatoria delle poche parole che Spatuzza assume di avere sentito pronunciare da Giuseppe Graviano» è confermata soprattutto dal rilievo che la pretesa euforia che animava il boss per avere ormai «il Paese nelle mani» grazie alla serietà delle persone (Berlusconi e Dell’Utri) che ciò avevano voluto e consentito, era destinata a svanire subito se proprio quello stesso Giuseppe Graviano, appena qualche giorno dopo quelle tanto entusiastiche quanto infondate previsioni, è stato arrestato a Milano assieme al fratello Filippo».


Se dunque, per il ciarliero Spatuzza, il Paese era nelle mani della mafia grazie all’accordo con Berlusconi, per i giudici «non si riesce davvero a comprendere perché né i capi dell’associazione mafiosa, ormai tutti in galera, che avrebbero dovuto beneficiarne, né soprattutto Giuseppe e Filippo Graviano, da oltre 15 anni detenuti con le gravose restrizioni di quell’articolo 41 la cui modifica asseritamente costituiva uno dei punti fondanti del patto politico-mafioso, abbiano mai in tutti questi lunghi anni preteso e reclamato il rispetto delle garanzie e degli impegni assunti dai due esponenti politici in quell’ormai lontano gennaio del 1994, che anche per tali considerazioni devono ritenersi invece mai avvenuti».
gianmarco.chiocci@ilgiornale.it

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