Ma perché scrivono i narratori italiani di oggi?

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Quando leggo gli scrittori deliranti sui giornali, mi viene in mente l’immagine degli ingegneri di anime, affetti da «morbo del guru», o al limite quella dei promotori di se stessi. Uno scrittore dovrebbe occuparsi soltanto della propria opera. Tuttavia, gli scrittori attuali spesso ne sono sprovvisti. E quindi non resta loro che parlare. Esempio recente: la piccola inchiesta d’intrattenimento di Andrea Temporelli intitolata Narrativa d’oggidì (Giuliano Ladolfi Editore, pagg. 106, euro 12).
Trattasi di sette domande, «banali e terribili», date in pasto a 30 autori («Si è registrata una minore disponibilità dei pesci grossi a lasciarsi prendere nella rete del gioco»: vigliacchi o troppo occupati?). L’inchiesta, partita sulla rivista Atelier (www.atelierpoesia.it) dal giugno 2010 al settembre 2011 (numeri 58-63), ha come scopo immediato «quello di offrire un intrattenimento gradevole».
Sotto la simpatica crosta, scoverete orrori. Prima domanda carnivora: Perché scrivi? Ci sono i mistici («scrivere è pregare», Marco Candida), gli esaltati («per parlare con Dio», Alessandro D’Avenia), gli intellettuali («lo scrittore per me è qualcosa a metà tra l’esorcista e lo scienziato», Nicola Lagioia), i tonti («scrivo ma non so il perché», Marco Missiroli), i finto tonti («nessuno domanda mai a mio fratello, progettista di pacemaker, perché progetta pacemaker», Giulio Mozzi), i formalisti («più che il perché, credo conti il come», Laura Pugno), gli spiantati («perché andare in analisi costa troppo», Flavio Santi), i sani («perché è quello che ho sempre voluto fare», Alessandro Zaccuri).
Il gioco delle citazioni potrebbe protrarsi all’infinito. Dello Scrittore Italiano Contemporaneo viene fuori il ritratto di un frustrato terrorizzato da ciò che gli altri pensano di lui, un esteta ipocondriaco, che difende ostinatamente il proprio territorio di fan con tiritera di vanità, la propria immagine di cartastraccia, sapendo che «il capolavoro è impossibile nell’epoca dell’arte di massa» (Di Consoli), e che «dopo Omero non siamo che umili garzoni di bottega» (Santi), che è un po’ come partire per il Motomondiale con il triciclo.
La morale ve la dico in tre mosse. Primo: gli scrittori non hanno nulla da dire ma continuano a parlare (nel mazzo di intervistati ci sono anch’io, per cui non mi sottraggo alla bestemmia).

Secondo: l’intervistatore si dimostra molto più intelligente degli intervistati. Terzo: la critica letteraria è morta. E consentendo l’indiscriminato proliferare di tanti parolieri, ci ha precipitato in una catastrofe estetica. L’epoca migliore per fermentare il capolavoro.

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