Perché gli Stati Uniti si vendicano di Toyota

SCOGLI La stampa americana fa autocritica Mercoledì il ceo Toyoda affronta il Congresso

«Quando in Giappone è stato deciso di ritirare per ragioni di sicurezza un tipo di carne americana, qui non ci sono state sollevazioni...». L’affermazione resa al Detroit economic club da Ron Kirk, esponente di spicco dell’amministrazione Obama e responsabile dell’Agenzia che sovrintende le politiche commerciali degli Stati Uniti, è chiaramente rivolta alle tensioni di queste settimane tra Washington e Tokio dopo i richiami di milioni di automobili Toyota difettose.
In Giappone è ancora aperta la ferita causata dall’affermazione del ministro dei Trasporti americano, Ray Lahood, il quale all’apice della crisi della casa di Nagoya, aveva consigliato alla popolazione Usa di «non guidare vetture Toyota», sollecitando i proprietari «a recarsi subito da un concessionario per farle riparare». Poche parole che hanno immediatamente avuto l’effetto di un terremoto sul colosso automobilistico e sulla Borsa di Tokio.
Nonostante l’importante contributo all’occupazione e le continue pressioni, attraverso estenuanti azioni di lobby, di accreditarsi come azienda americana (anche per sdrammatizzare il sorpasso ai danni della General motors nella classifica dei produttori), Toyota in questi giorni sta pagando il pedaggio del successo conseguito. Al di là dei seri problemi derivati dai difetti alle autovetture, l’accanimento mediatico americano potrebbe avere questa giustificazione: per giornali, radio e reti televisive la gamma giapponese è sempre stata portata come esempio di efficienza, un vero benchmark. E lo stesso ragionamento vale per il magazine Consumer Reports, considerato la bibbia dei consumatori americani, in grado di indirizzare - con le sue raccomandazioni - l’acquisto di un prodotto piuttosto che un altro. Insomma, la vicenda dei richiami che hanno coinvolto i veicoli Toyota (quasi 9 milioni di unità nel mondo, un anno di produzione) ha messo in forte imbarazzo più di un soggetto. E allora via alla rappresaglia.
C’è da dire, comunque, che a Nagoya, in vero stile giapponese, si è fatto di tutto per complicare la situazione. Ad amplificare lo scandalo, infatti, sono stati i troppi tentennamenti, una comunicazione poco tempestiva e le indecisioni mostrate dal presidente e amministratore delegato Akio Toyoda a presentarsi, prima davanti all’opinione pubblica e, quindi, ad accettare di spiegare personalmente al Congresso americano come sia potuto accadere che da simbolo di qualità assoluta, un’azienda in pochi giorni diventi agli occhi del mondo praticamente l’opposto. Cose da harakiri.
E così Toyoda-san, quando mercoledì prossimo si presenterà al cospetto dei deputati americani, ripeterà il profondo inchino di qualche settimana prima per scusarsi di fronte ai giornalisti di tutto il mondo. Il discendente del fondatore della casa automobilistica non dovrebbe avere troppi problemi a confrontarsi con il Congresso. Toyoda, dopo essersi laureato alla prestigiosa Università Keio di Tokio, la stessa dove ha studiato l’ex premier Junichiro Koizumi, ha completato la sua formazione manageriale con una serie di master proprio negli Stati Uniti, dove ha vissuto per qualche tempo. Per il top manager, comunque, non sarà una passeggiata.

Dovrà essere soprattutto sincero e deciso, perché alla minima incertezza gli saranno tutti addosso, come del resto è successo tra il 2008 e il 2009 quando, nel pieno della crisi finanziaria, i vertici di Gm, Ford e Chrysler si sono presentati al Campidoglio con eccessiva disinvoltura. La frase riportata dalla stampa Usa del solito ministro Lahood («non abbiamo ancora finito con Toyota») fa capire in quale clima si svolgerà la testimonianza di Toyoda-san.

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