Rasputin, un santo o un ciarlatano alla corte dello zar?

Per alcuni fu un santo, per altri un diavolo che contribuì alla rovina dei Romanov e dell’impero russo: di certo Rasputin fu un personaggio carismatico e controverso, probabilmente un abile calcolatore

Di Carl Bulla, Pubblico dominio Wikicommons
Di Carl Bulla, Pubblico dominio Wikicommons

Chi fu davvero Grigorij Efimovič Rasputin (1869-1916)? Una cosa è certa: fu molte cose, alcune in netta contraddizione l’una con l’altra. In lui convissero diverse “anime”, quella del mistico e guaritore, quella del ladro, quella dell’asceta, quella dell’amante del lusso e delle donne. Rasputin arrivò non solo a toccare il vero potere, ma addirittura a influenzare la famiglia dello zar con il suo indiscutibile ascendente. Essere diventato indispensabile per Nicola II e la sua famiglia segnò il suo ingresso ufficiale nella Storia, ma anche il suo terribile destino.

Il ladruncolo diventato “starets”

Rasputin nacque a Prokrovskoe, un villaggio a più di duemila chilometri dal centro del potere, la capitale dell’impero San Pietroburgo. Era figlio di un vetturino e di una contadina, amava i piaceri della tavola e le donne: nulla lasciava presagire che sarebbe arrivato fin negli appartamenti privati della famiglia dello zar, diventando una delle figure più temute, rispettate, ma anche odiate alla corte dell'ultimo zar di Russia.

Ci sono alcuni episodi della sua giovinezza che vengono indicati dai biografi come una sorta di spartiacque, eventi chiave che, seppur indirettamente, lo condussero fino al centro dell’impero: da bambino Grigorij scivolò in un torrente con uno dei fratelli. Entrambi si presero la polmonite, ma il futuro monaco si salvò. Questo evento gravò per sempre sulla sua coscienza e segnò un primo, importante cambiamento nel suo carattere. Ma non fu il solo. Quando Rasputin era ormai un ragazzo sarebbe stato sorpreso a rubare lo steccato di un vicino e preso a bastonate. Secondo episodio negativo che lo avrebbe reso ancora più chiuso, riservato, cupo.

Per la verità Grigorij aveva sempre avuto un’inclinazione per il misticismo e per la spiritualità, ma queste due disavventure avrebbero accentuato tale predisposizione. Nel 1897 decise di partire per il monastero ortodosso di Verchotur’e, lasciando i genitori, la moglie Praskov’ja, che aveva sposato nel 1887 e i figli. In questo luogo Rasputin imparò a leggere e a scrivere e incontrò la sua guida spirituale, il monaco Makarij (1851-1917) il quale, per espiare i peccati, si infliggeva mortificazioni corporali con una catena e non mangiava carne.

L’arrivo nel monastero sancì la vera svolta mistica di Grigorij, che decise di diventare un pellegrino e vivere di elemosina, tornando dalla sua famiglia esclusivamente per aiutare durante le fasi più importanti del lavoro nei campi. All’inizio del Novecento (la data precisa è incerta, gli studiosi si dividono tra i 1903 e il 1905) il mistico si recò a San Pietroburgo per conoscere il religioso Ivan Ilič Sergiev (1829-1908), futuro San Giovanni di Kronštadt. Nella capitale il carisma del mistico riuscì a impressionare perfino l’archimandrita Feofan, confessore dello zar.

Da questo momento la vita di Rasputin cambiò di colpo. La principessa Milica del Montenegro e la sorella Anastasia, sposate con uomini della famiglia Romanov e interessate agli argomenti inerenti la spiritualità (senza disdegnare un tema di gran voga all’epoca, lo spiritismo), vollero conoscerlo e, affascinate dal suo magnetismo lo introdussero a corte, al cospetto degli zar Nicola II (1868-1918) e Alexandra Fëdorovna (1872-1918). Davanti a Grigorij si spalancarono le porte del potere assoluto.

La debolezza degli zar

Quando Rasputin arrivò a Palazzo, nel 1905, l’autorità di Nicola II vacillava pericolosamente dopo la sconfitta russa nel conflitto contro il Giappone (1904-1905) e la prima rivoluzione russa del 1905. La reputazione di Grigorij, però, non era così immacolata e splendente: gli abitanti del villaggio in cui era nato lo consideravano un chlysty, ovvero il membro di una setta i cui adepti, durante rituali notturni, danzavano, si flagellavano e, infine, si lasciavano andare a orge. Non tutti gli storici, però, concordano sull’appartenenza di Rasputin a questo gruppo.

In ogni caso Rasputin riuscì a far breccia nel cuore dei sovrani, perché riuscì (apparentemente) dove altri, con molta più esperienza e conoscenze di lui, avevano fallito: “curare” l’erede al trono di Nicola II, il piccolo Alekseij. Il bambino aveva l’emofilia, trasmessagli dalla madre, Alexandra Fëdorovna. Quest’ultima, infatti, era la nipote della regina Vittoria, prima portatrice sana della malattia nel suo casato. Gli zar mantennero il segreto assoluto su questo gravissimo problema, che minacciava da vicino il loro potere. La fragilità di Alekseij, però, rendeva anche loro più deboli, disposti a tutto pur di guarirlo. Anche a credere a un uomo di dubbia moralità come Rasputin.

Nel 1907, nel Palazzo di Alessandro a Tsarskoe Celo, Grigorij compì quello che agli occhi di Nicola II e Alexandra sembrò un vero e proprio miracolo: “guarì” lo zarevič da una grave emorragia. Episodi simili si ripeterono nel tempo, tanto che gli zar pensarono di trovarsi davvero di fronte a un santo. Rasputin divenne un protetto e un alleato della famiglia imperiale. Intoccabile. Per i sovrani le voci che circolavano sul suo conto, in particolare sulla sua condotta scandalosa dedita all’alcol e alle avventure con donne nubili e sposate, non solo cortigiane, non erano altro se non calunnie. La zarina si affidò completamente a Rasputin, tanto che gli oppositori della monarchia parlarono addirittura di una relazione tra i due, testimoniata da un carteggio equivoco.

Per la verità non vi fu alcuna passione segreta. Tutt'altro. Alexandra assunse un atteggiamento di vera e propria sudditanza psicologica nei confronti di Rasputin poiché questi le aveva fatto credere di essere l'unico in grado di salvare l'erede al trono e, di conseguenza, la monarchia. Poco importava che fosse una figura oscura, inquietante. La zarina, piegata dal senso di colpa per aver trasmesso l’emofilia al figlio, di carattere nervoso, fermamente convinta che l’autorità dello zar fosse volontà divina e la monarchia assoluta l’unica forma di governo possibile in Russia, voleva credere a Rasputin. Vi si aggrappò, considerandolo la sua unica speranza. Era una fuga da quella realtà che le ricordava a ogni passo un fatto incontrovertibile: non esisteva cura per suo figlio. La negazione dei fatti, però, la rendeva estremamente vulnerabile e facile preda di uomini senza scrupoli come lo “starets” (“anziano”, titolo dato ai mistici russi).

Il tramonto di un’era

Rasputin era diventato indispensabile, l’unico tramite tra gli zar e il mondo esterno. Quando Nicola II partì per Stavka, all’inizio della Prima Guerra Mondiale, lasciò il governo nelle mani del mistico e della zarina. Non poteva fare scelta peggiore: Alexandra, che di certo non era un’esperta di politica, nominò esclusivamente ministri favorevoli all’impero, ma del tutto incapaci di governare. Ogni consiglio di Rasputin suonava alle sue orecchie come una sorta di messaggio inviato da Dio, mentre non era altro che piaggeria.

Il popolo era stanco di guerre e povertà, non più disposto ad accettare che i suoi figli morissero in battaglia, certo che la zarina fosse una spia dei tedeschi (ma non era così), lo zar un inetto e Rasputin un beone che trascorreva il suo tempo gozzovigliando (su questo i sudditi non avevano tutti i torti). Lo starets stava trascinando l’impero in un baratro. Doveva morire, si convinsero gli oppositori politici.

La congiura

L’ultimo capitolo della vita di Rasputin è uno dei più incredibili e misteriosi. Era diventato un personaggio scomodo: per eliminarlo, sperando così di estirpare alla radice il male che aveva corrotto la monarchia, il ricchissimo e potente Feliks Jusupov (1887-1967) organizzò una congiura insieme al granduca Dmitrij Pavlovič, cugino dello zar, al deputato Vladimir Purishkevič, l’assistente medico Stansilatus de Lazovert. Più tardi sarebbero arrivati anche un amico della famiglia di Feliks, Sukotin, e i principi Fëdor Aleksandrovič Romanov e Nikita Aleksandrovič Romanov, cognati di Yusupov.

Rasputin venne attirato in una trappola, architettata tenendo conto della sua più grande debolezza: le donne. Jusupov lo invitò a cena nel suo Palazzo con la scusa di fargli incontrare sua moglie, la granduchessa Irina, nipote di Nicola II. Lo starets, infatti, era affascinato dalla bellezza dell’aristocratica e voleva conoscerla a tutti i costi.

Il 29 dicembre 1916, nel seminterrato insonorizzato della residenza, Jusupov offrì a Rasputin dei dolcetti al cianuro. Questi li mangiò avidamente, ma non morì. Immaginiamo lo stupore dei suoi nemici che, comunque, non si persero d’animo. Jusupov passò alle maniere più spicce, sparando a Rasputin con il suo revolver Browning. Neanche questo bastò a ucciderlo. Feliks si chinò su di lui per controllare se fosse morto. In quell’istante, come in un vero film dell’orrore, il mistico aprì gli occhi, si rialzò e tentò di aggredire il principe, per poi scappare dal palazzo.

La fuga venne interrotta pochi secondi dopo dai due colpi sparati dalla pistola Savage di Purishkevič. Quando Rasputin si accasciò a terra, sprofondando nella neve, Feliks lo raggiunse e gli sparò in un occhio. Il cadavere venne gettato nel fiume Malaja Nevka, ma lo starets doveva essere già morto in quel momento, perché l’autopsia rivelò che non vi era acqua nei polmoni.

Rasputin doveva essere un uomo molto forte, dal fisico resistente. Ciò potrebbe spiegare, in parte, le difficoltà incontrate dai congiurati in quella notte di dicembre. Di sicuro non era un santo, né aveva poteri sovrumani. In realtà era solo (si fa per dire) molto scaltro. Sapeva di avere molti nemici potenti. Questo atteggiamento guardingo lo aveva già salvato da due attentati. Non era immortale, come credevano alcuni, bensì attento, scrupoloso fino alla paranoia.

Le indagini sulla sua morte vennero condotte in modo molto sbrigativo, lasciando molti punti oscuri.

L’ultimo mistero riguarda la sua tomba: Rasputin sarebbe stato sepolto a Tsarskoe Celo ma, dopo la rivoluzione, i bolscevichi avrebbero riesumato e bruciato il corpo per cancellare ogni traccia dello zarismo, evitando che quel luogo divenisse meta di pellegrinaggio da parte dei nostalgici sostenitori dell’impero.

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