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"La mia Roma della Dolce vita. Così sono nati i paparazzi"

Dalla campagna di Zagarolo alla Roma di Via Veneto, le grandi star, la dolce vita, la nascita del paparazzismo e l'amicizia con Almirante. Il "compagno" Umberto Pizzi si racconta

"La mia Roma della Dolce vita. Così sono nati i paparazzi"

Umberto Pizzi da Zagarolo, 85 anni, è l’ultimo grande testimone di una Roma che non c’è più. Quella della sfavillante e leggendaria Via Veneto e di Hollywood sul Tevere. Dei caffè, delle osterie e dei night. Con la sua macchina fotografica ha immortalato i grandi della terra, da Giovanni Paolo II a Onassis, da Gianni Agnelli a Gorbaciov. Nei palazzi romani – che conosce a memoria - è una vera istituzione, anche se lui le istituzioni le fotografa. Il “compagno” Pizzi, di profonda fede comunista, ha mantenuto nel corso della sua lunga carriera – vissuta a gran velocità tra una via e l’altra di Roma – buone amicizie anche a destra. Storico è stato il suo legame con Giorgio e donna Assunta Almirante. Al compleanno del democristianissimo Gianfranco Rotondi anche il presidente del Consiglio Meloni gli ha reso omaggio con tono ironico e divertito: “Guarda chi c’è, il comunista Pizzi”. E gli ha dato un bacio sulla guancia. La prima donna premier e di destra che saluta lo storico comunista. Anche questa è Roma, la città eterna, che si adatta ai cambiamenti del tempo e dei nuovi personaggi al potere. E Pizzi è lì, intramontabile, pronto con il suo obiettivo a ritrarli tra vizi e virtù, tra luci e ombre, tra ascese e cadute. Click.

A 85 anni continua a fotografare e a lavorare. Non si è stancato?

“No. La ragione è che quando uno comincia a invecchiare se ti fermi è una tristezza. Specialmente per un uomo che è sempre stato attivo… Insieme a una mia nipote, stiamo sistemando l’archivio fotografico, e siamo arrivati a quarantamila foto, ma saremo forse al dieci percento. Voglio salvare l’archivio perché non deve morire, deve essere una testimonianza per il futuro, per la gente che vorrà sapere come eravamo, come ci comportavamo, come vestivamo, come ci divertivamo… la fotografia ha una grande virtù, è un racconto. L’importante è saperla leggere. E questo mi dà motivo di lavorare”.

Come nasce la sua passione per la fotografia?

“A diciotto anni non sapevo cosa fare. Trovare un lavoro fisso non mi eccitava molto. Vivevo in campagna, avevo una di quelle ‘macchinette a soffietto’, e mi misi a fotografare ogni cosa, le radici dell’albero, le persone anziane… All’inizio degli anni ’60 vivevo in Via Veneto, dove c’era un ricco signore, proprietario di un albergo che aveva perduto una gamba e aveva bisogno di un assistente che lo accompagnasse, così mi misi al suo servizio. In questo contesto ebbi modo di conoscere un austriaco – aiutava il mio datore di lavoro a fare ginnastica – che volle presentarmi una sua amica, picture editore della FAO. Accettai alcuni progetti in Medio Oriente, tuttavia la paga era poca e pensai di trovare un posto fisso, che mi garantisse tredicesima, feste, malattie ecc… ma alla fine mi dette un consiglio prezioso che seguii alla lettera. “Senti Umberto, perché non guardi come lavorano i paparazzi?”. Capii dopo poco che era un lavoro che mi eccitava e in sei mesi diventai quasi una star. Avevo tutte le caratteristiche per fare bene, soprattutto la velocità di comprendere le cose, un occhio molto attento e poi la volontà…”.

Lei ha lavorato nella Roma della dolce vita.

“Sono stati anni bellissimi. Roma era una città appetibile per il mercato cinematografico, costava poco a differenza di Hollywood. Cominciarono ad arrivare le grandi star come Elizabeth Taylor, Richard Burton, Anita Ekberg, Ursula Andress… Dopo il successo di Fellini, era iniziata un’altra dolce vita, la vera, che in effetti ha proseguito quasi fino alla fine degli anni ’80. L’italiano stava uscendo dal dopoguerra e andava a divertirsi, a vivere la notte… si vedevano fuori dai night le macchine di lusso, dalle Rolls-Royce alle Ferrari, e c’era una serie di playboy, quasi tutti nati all’interno della nobiltà che si divertivano, si scambiavano le donne”.

Tra le tante celebrità incontrate chi ricorda particolarmente?

“Sophia Loren, Gina Lollobrigida, le bellezze italiane… ma anche la Taylor era la Taylor. Venivano tutti a Roma e quando arrivavano si divertivano. Gli americani venivano per vedere il Colosseo, Fontana di Trevi e per andare al Jackie O’ e Number One…”.

Prova nostalgia?

“Io provo nostalgia perché ero giovane. Ero capace di fare le tre, le quattro di notte, e la mattina mi arrivava una telefonata “vai a Montecarlo”, “vai a Capri…”. Si montava in macchina e si andava, perché si aveva l’incoscienza, la forza e poi si guadagnava bene”.

Qual era il segreto che adottava nell’andare a scovare le star?

“Io utilizzavo un sistema, ero diciamo un “osservatore antropologo”, studiavo i personaggi. Quando arrivavano per girare un film, per due, tre giorni non prendevo nemmeno la macchina fotografica, li studiavo da quando uscivano dall'auto e dalla direzione che prendevano, così poi mi piazzavo con il teleobiettivo dalla parte opposta e facevo le foto di nascosto. Con la Elizabeth Taylor intrapresi una vera e propria sfida. Lei quando veniva a Roma per tre giorni stava chiusa nella suite al Grand Hotel per il jet lag”.

Come era il rapporto con le star?

“Direi di amore e odio. Anche se, essendo bravi a fare le foto, quando uscivano erano particolarmente belle che questi signori si sentivano quasi santificati…”.

Quand’è che nascono i paparazzi?

“I primi paparazzi nacquero a Roma alla Stazione Termini con l’aiuto di Edilio Rusconi. Prima di essere editore, fu un eccellente giornalista dell’Oggi. Allora la redazione del settimanale era in Via Veneto. Quando scendeva dal treno – questo signore piccolo, bassetto ma molto tosto - vedeva tanti fotografi, reduci dal dopoguerra che davano il bigliettino nel tentativo di racimolare qualche soldo dai turisti e gli diceva “ma ragazzi che state a fare? C’è Hollywood sul Tevere, andate in Via Veneto, fate foto alle star, guadagnate quanto un mese a stare qui!”.

Che tipo di paparazzo era?

“Io mi sono sempre definito un paparazzo intellettuale… studiavo la persona, mi informavo e facevo lavorare il cervello”.

Mastroianni?

“Era un uomo un po’ intristito, incupito, ti contestava sempre. Diceva “Umberto perché non fai il metalmeccanico?” e io gli rispondevo “A Marce’ questo è il mio lavoro. Perché non lo fai te?”. Lo colpivo ferocemente. Aveva la nomea del playboy, anche se veniva “violentato” dalle attrici con cui girava i film, specialmente bionde. Tant’è vero che sua mamma ogni tanto andava sul set e gli diceva “Marce’ ma non anna’ con ‘ste donnacce… so’ donnacce” e lo accarezzava sulla guancia”.

La Loren?

“Se ne stava sulle sue. Io l’ho pizzicata molte volte… la seguivo ovunque. Tra l’altro il mio editore del National Enquirer ne era innamorato pazzo e mi ripeteva “Umberto go on… unlimited budget”.

Anna Magnani?

“Era come incontrare una cummare, aveva un fascino popolare, non le piaceva apparire… viveva a Palazzo Altieri, noi ci appostavamo fuori e prima di chiudere il portone diceva “beh, mo’ che me volete fa’?”.

Sordi?

“Era sempre sorridente e divertente. Io credo che non ci sia qualcuno che conosca profondamente Alberto Sordi. Però era una brava persona. A me piaceva molto”.

Vittorio De Sica?

“Personaggio straordinario, ha fatto dei capolavori. Pensava molto al suo successo ed era un ‘francese’ in quanto viveva più a Parigi e Montecarlo che a Roma”.

Flaiano?

“Dopo aver fatto il film di Fellini non si vedeva più in giro. Lui è stato quello che ha fatto nascere La dolce vita, Fellini l’ha portata sullo schermo”.

Il 16 marzo del ’78 fu tra i primi ad arrivare in Via Fani.

“Quella fu una giornata che cambiò l’Italia. In quel periodo collaboravo con una testata americana molto famosa, mi chiamò una giornalista che ci lavorava dicendomi “Umberto corri in Via Fani. Hanno ammazzato Moro”. Io abitavo a San Basilio, in linea d’aria a sette, otto km, sono montato sul motorino e a gran velocità ho raggiunto Via della Camilluccia. Ad un certo punto si doveva girare ma era tutto occupato dalla polizia. Siccome il nostro mestiere è fatto di velocità del pensiero, ho girato contromano e sono arrivato in Via Fani. Uno scenario terribile. I corpi della scorta di Moro senza vita e i proiettili in terra che era impossibile non calpestare”.

Il leader della sinistra che ha amato di più?

“Berlinguer”.

Si sente ancora oggi un compagno?

“Sì, assolutamente. Il comunismo ha fatto il suo percorso, non ci sono più i comunisti di un tempo, però penso che ci siano delle cose da mettere a posto in questo paese”.

A destra aveva buone amicizie?

“Sì. Avevo un buon rapporto con Almirante. Il leader missino andava al night, era un gran tombeur de femmes… Io fino alla morte sono stato un amico di donna Assunta. Giorgio diceva di me “lui è un compagno! Ma è il mio fotografo preferito”. Una volta li fotografai fuori da un ristorante vicino Piazza Navona. Non si vedevano spesso in giro insieme, così scattai delle foto. Almirante le comprò una rosa, donna Assunta la prese, venne contro di me come se mi volesse menare e le dissi “mo’ che me voi mena’?”. E ci siamo messi a ridere tutti quanti”.

Il primo presidente della Repubblica che ha fotografato?

“Saragat. Poi li ho ritratti tutti, fino a Mattarella. Anche se non era molto gettonato fotografare il presidente della Repubblica, non pagavano niente e c’è sempre una certa attenzione… a pensarci bene non credo di aver mai dato una foto all’Unità o a Paese Sera. Noi fotografavamo le persone che andavano sulle riviste patinate e non sui giornali”.

E tra i pontefici?

“Il primo fu Giovanni Paolo II nel ’78, perché un magazine americano mi chiese i dieci uomini a lui più vicini”.

Lei conosce ogni angolo di Roma. Qual è la cosa che ama di più di questa città e quella che le fa più paura?

“Io amo tutto di Roma. Roma è come una bella signora, non invecchia mai e poi è sempre accogliente. Quello che mi fa paura è la gente che c’è dentro”.

Chi avrebbe voluto fotografare?

“Che Guevara”.

È un mestiere che ha un futuro?

“Secondo me no. Con l’avvento dei telefonini hanno bruciato tutto.

La gente poi è molto cambiata, ha perso anche il gusto di godere di un’immagine”.

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