Il superindice dell'Ocse è uno dei migliori indicatori predittivi delle tendenze economiche. L'ultimo rilevamento segnala - per la prima volta dal 2003 - una ripresa piuttosto robusta e consolidata per l'Italia. Soprattutto, la tendenza semestrale non mostra più segni meno. Alcuni economisti si sono sbilanciati nell'affermare che siamo al «giro di boa», cioè alla fine del ciclo stagnante, pur se l'entità della ripresa è ancora imprecisabile. Ma è precisabile ciò che la determinerà, come vedremo, ovvero la causa principale di stagnazione e ripresa: il valore di cambio dell'euro. Questo ha inciso ed incide molto di più di quanto finora pensato sull'economia italiana (e tedesca). Tale dato dirime, con fatti controllabili, la polemica sulla causa solo interna o esterna della stagnazione in Italia: prevale la causa esterna, l'effetto depressivo sulle esportazioni dato dal cambio decompetitivo dell'euro. E smentisce le accuse che imputano al governo Berlusconi inesistenti catastrofe economica e relative colpe. Ma il punto è un altro: rilevata la fortissima incidenza del cambio sugli andamenti economici di Italia e Germania, come sarà possibile renderlo più favorevole?
Vediamo le prove di quanto affermato. La correlazione tra andamento del cambio dell'euro e le prestazioni sistemiche della nostra economia risulta molto significativa. L'Italia ha esportato di meno ed attratto meno turismo dal 2003 in poi perché il dollaro è crollato e l'euro è schizzato troppo in alto rendendo non concorrenziali i prezzi delle merci e servizi denominati nella nostra valuta. La controprova è che quando il dollaro ha cominciato a risalire l'economia italiana è rimbalzata. In particolare, a partire dal secondo trimestre del 2005 in coincidenza con un cambio meno penalizzante. L'Italia, come mostrato dagli indicatori di sensitività, è più dipendente di altre economie nazionali al cambio ed al suo effetto sull'export. Hanno certamente ragione quelli che sostengono la necessità di modernizzare il nostro sistema di imprese affinché producano merci meno basate sulla concorrenza per prezzo. Ma il problema è che tale trasformazione richiede tempo. E nel mentre abbiamo bisogno, realisticamente, della competitività valutaria per stare a galla. La nascita dell'euro ci ha tolto quella intraeuropea. L'impennata dell'euro ha reso impossibile bilanciarla aumentando l'export nel mercato globale. La risultante è che dal 1993 abbiamo perso il 25,4% del mercato globale, con una caduta più grave dal 2000 in poi, a picco dal 2003. Ma anche l'andamento dell'economia tedesca, pur questa aumentando le quote di mercato mondiale del 2,9% nello stesso periodo, è dal 2003 correlato a quello della competitività valutaria. Ora il superindice Ocse mostra la medesima curva di stagnazione/ripresa sia per la Germania sia per l'Italia e lascia inferire che i due grandi malati d'Europa lo sono stati non solo per problemi di modello, ma, in quanto nazioni che bilanciano la poca crescita interna massimizzando le esportazioni più di qualsiasi altro dell'eurozona, per causa principale del cambio. Infatti stanno migliorando perché questo migliora. Cosa può portare il cambio euro/dollaro verso un rapporto 1 a 1 che darebbe all'Italia un potenziale di Pil del 2,6% (contro l'1,5 proiettivo ora stimato) e quasi del 3% (contro l'1,8) alla Germania nel 2006? L'America, sbagliando in relazione al pericolo di inflazione, non vuole rialzare il dollaro. I mercati non torneranno in massa sul dollaro stesso, il vero fattore rialzista, se resta destabilizzato dagli squilibri di bilancio. La Bce teme oltre ogni realismo l'inflazione e preferisce l'euro forte infischiandosene del danno che provoca. Come ne potremmo uscire? Con una iniziativa congiunta italo-tedesca che spinga l'Unione Europea a negoziare con gli Usa, coinvolgendo le rispettive autorità monetarie, per portare il cambio verso un equilibrio ragionevole e tenercelo.
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