Petrella e Contrada, la legge è disuguale per tutti

Caro Granzotto, io non so più se veramente «la legge è uguale per tutti» e se la nostra giustizia è sempre giusta. Quando si trattò della Baraldini, che doveva scontare ancora lunghi anni di carcere, un ministro della nostra Repubblica corse ad accoglierla e la riportò in volo a Roma. Pochi anni di prigione e poi via in libertà con lavoro garantito. Ora, per la danza che dura da decenni, c’è in ballo la Petrella, già condannata per diversi crimini, omicidio compreso, commessi quando faceva la Br con il nome di «Virginia». A certi livelli alti c’è grande agitazione perché non si vuole che dopo la lunga e tranquilla parentesi francese le si ricordi che in carcere è stata solo un anno e che l’ergastolo, a cui è condannata dal 1992, è un po’ più lungo. Il fatto è che la ex Br, pur sempre assassina, è presa da una tristezza tale da renderla «incompatibile con la detenzione». Per lei dunque ci vorrà piuttosto, e ci sarà, la giusta comprensione. Piccolezze: un po’ di buona accoglienza e uno stipendio risolveranno tutto.
Invece per quell’uomo che ha dedicato la vita intera al servizio dello Stato, per Bruno Contrada, l’ex comandante del Sisde che ricevette decine di alti elogi sia dalla sua amministrazione, sia dalla magistratura in riconoscimento del grande impegno svolto, per lui contano ancora le «convergenti del molteplice» costituite dalle deposizioni dei cosiddetti «pentiti» che lo hanno accusato di essere vicino alla mafia. I giudici hanno creduto e hanno condannato: Contrada in galera, disonorato e dimenticato. Non importa che sia sofferente e anziano: non si chiama Baraldini, né Curcio, né Faranda, né Bompressi Ovidio. È soltanto Bruno Contrada, già capo de Sisde. A lui, dopo indicibili offese, sono stati da poco concessi i «domiciliari», ma non a casa sua a Palermo. È, sì, distrutto dal dolore, ma in compagnia della moglie malata, sarebbe pericoloso; stia dunque a Varcaturo, presso la sorella e si tenga questo nuovo insulto. A me sembra che fatti di questo genere non siano atti di «giustizia», ma qualcosa di molto vergognoso. Che ne dice, mi sbaglio?


Certo che no, caro Maetzke: il trattamento riservato a Bruno Contrada, così stridente se confrontato a quello del quale hanno goduto le Baraldini, i Sofri e che godrà, c’è da metterci la mano sul fuoco, la Petrella, parla da sé. E l’abisso che separa i due pesi e le due misure non può certo essere colmato da giustificazioni di carattere legale, né da arzigogoli dialettici. Per un verso, manica larga e un’evidente, palpabile partecipazione; per l’altro, una condotta che potrebbe anche dirsi persecutoria, certo duramente punitiva e accompagnata dalla sensazione che il pugno di ferro serva a coprire una cantonata commessa non si sa se per inadeguatezza o per cecità ideologica. Se si aggiunge che, incardinato sul più ambiguo, sfuggente dei reati, il «concorso esterno in associazione di tipo mafioso», l’impianto giudiziario che ha portato alla condanna si è retto sulle rivelazioni di pentiti della risma dei Gaspare Mutolo e tenendo in non cale quelle del prefetto Masone o dell’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi, nessuna meraviglia se per l’opinione pubblica non fanatica del tintinnar di manette Bruno Contrada sia visto come un perseguitato.

Ciò che non aiuta ad alimentare fiducia e rispetto nei confronti delle istituzioni e della magistratura in particolare, che tanto si lamenta per la perdita di credibilità nel popolo a nome del quale amministra la giustizia.

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