Controcultura

"Petrolio" e i misteri d'Italia. Forte: "Carlo? Sì, sono io"

L'economista, che lavorò all'Eni, racconta come è diventato il protagonista del romanzo incompiuto

"Petrolio" e i misteri d'Italia. Forte: "Carlo? Sì, sono io"

Pasolini è stato assassinato il 2 novembre 1975 al Lido di Ostia. Come è noto, per il suo omicidio fu condannato Pino Pelosi, ragazzo di vita col quale il poeta quella notte si accompagnava. Molti però sostennero e sostengono che la morte di Pasolini sia legata al romanzo incompiuto al quale stava lavorando da anni: Petrolio. Ambientato nelle vicende dell'Eni tra la morte di Mattei e i primi anni Settanta, Petrolio aveva l'ambizione di dare un volto (e, fin dove possibile, un nome) al nuovo Potere, che stava trasformando l'Italia nella direzione omologante e repressiva descritta tante volte da Pasolini nei suoi ultimi articoli. Pasolini ucciso per aver scoperto qualcosa di troppo o perché si pensava che avesse scoperto qualcosa di troppo? Il mistero è ancora fitto. Petrolio ha come protagonista un giovane dirigente dell'Eni, Carlo. Non è pura invenzione. «Carlo» infatti è ispirato a Francesco Forte, economista, nato a Busto Arsizio nel 1929. I lettori di questo giornale lo conoscono bene: è uno storico collaboratore. Il cursus honorum di Forte è infinito: basterà dire che è stato il successore di Luigi Einaudi alla cattedra di Scienza delle finanze a Torino. È stato deputato, senatore e ministro. Ha aderito al Psi dopo la svolta riformista. Forte però ha mantenuto sempre il profilo dello studioso, insegnando e pubblicando oltre 35 saggi. Diamo dunque la parola a Carlo, pardon: Francesco.

Professore, lei è Carlo, il protagonista di Petrolio di Pier Paolo Pasolini, il romanzo più discusso del Novecento?

«Sì sono Carlo, non è un segreto. Sono identificato in tutte le edizioni italiane, anche se nessuno ha approfondito. Negli appunti di Pasolini ci sono articoli di cronaca che mi riguardano. Si può dire che la prima parola del dattiloscritto sia il mio cognome, accompagnato dalla data in cui mi trovai al centro di una grossa polemica sull'Eni, così almeno nella edizione che è stata pubblicata negli Oscar Mondadori. Inoltre l'ho scritto io stesso, pochi anni fa, nella mia autobiografia. Naturalmente sono Carlo solo per alcuni aspetti. Carlo è innanzi tutto Pasolini stesso».

Lei ha fatto una lunghissima carriera dentro all'Eni, l'azienda petrolifera italiana. Come è iniziata?

«Nel 1953 risposi a un bando per consulenti esterni, con contratto part time, e diventai consulente petrolifero dell'Ufficio studi, con particolare riguardo ai problemi fiscali e al prezzo, internazionale e interno, in questo campo. Ogni tanto mi chiamava Enrico Mattei, nel suo ufficio all'ultimo piano, a Roma, in Via Lombardia. Io lavoravo al secondo, per circa due giorni, in mezzo alla settimana. Ma il mio referente principale era il vicepresidente Marcello Boldrini, ordinario di Statistica economica. Sarei diventato in seguito vicepresidente come lui e come lui mi dedicai in prevalenza all'aspetto scientifico-economico nella gestione dell'azienda. Però i bilanci li firmavo anch'io. E lì cominciarono i problemi».

Un attimo, ricapitoliamo. Lei dunque ha lavorato con Enrico Mattei, morto nel 1962 in seguito a un incidente aereo, uno dei grandi misteri italiani; con Marcello Boldrini, vice di Mattei e suo successore fino al 1967; con Eugenio Cefis, anch'egli ex braccio destro e poi successore di Mattei, dopo Boldrini, fino al 1971; e infine con Raffaele Girotti, prima direttore generale e poi successore di Cefis...

«Sì. È corretto. Boldrini era un professore, per quanto concreto. Cefis era già la figura di spicco nelle vicende strettamente economiche anche durante la presidenza Boldrini».

Perché lui e non Girotti?

«Mattei aveva lasciato una situazione finanziaria difficile. Cefis era un ottimo manager. Aveva capacità imprenditoriali. A Cefis pesava essere il manager di un'azienda pubblica, che non poteva posizionare sul mercato a suo completo piacimento. Nel 1971 provò a scalare, con l'avallo di Cuccia, la Montedison. Qualche anno dopo si ritirò a gestire le sue aziende private. Gli chiesi perché. Mi disse che alla mattina, quando si radeva, non vedeva nello specchio nulla che gli piacesse, doveva cambiare scenario».

Pasolini ha conservato soprattutto articoli di cronaca relativi al 1973. All'epoca lei era fortemente critico sulla gestione Girotti dell'azienda. Come mai?

«Avevamo visioni diverse su cosa fosse e come andasse governato l'Eni. Inoltre Girotti aveva la pretesa, per me inaccettabile, di comandare in solitudine. Io criticai la presidenza dell'Eni perché i bilanci non erano trasparenti, a causa dei fondi che rimanevano all'estero e non venivano consolidati nel bilancio ufficiale. Mi rifiutai di firmare. Diedi anche le dimissioni. Non furono né accettate né respinte. Mi spostarono altrove, a Tescon, ramo tessile dell'Eni. In un'intervista a un giornale statunitense dissi che ritenevo possibile ci fossero reati. Ne seguì un processo per calunnia, che finì male per chi lo aveva intentato. Si aprì un processo a carico dei vertici Eni, io venni chiamato come testimone. Il responsabile contabile dei bilanci truccati, quelli che non volli firmare, era Leonardo Di Donna, poco importante nella gestione Cefis, ma cruciale per quella Girotti».

Fu uno scontro duro, finì sul Corriere della Sera in prima pagina.

«Io combattevo contro la corruzione. La politica voleva utilizzare l'Eni come un portafogli per creare fondi neri. Non mi andava bene. Volevo anche chiarezza assoluta negli interessi di Eni nel campo dei giornali».

Cefis, come scrive qualcuno, era finanziatore occulto del Corriere dei Rizzoli, negli anni in cui vi scriveva Pasolini, che lei sappia?

«Più probabile che i soldi arrivassero da un altro gruppo, vicino alla P2, avverso a Cefis e interessato a partecipare alla guerra della chimica italiana».

Quindi lei da Pasolini è stato scelto perché era il buono che, come si intuiva dagli articoli di cronaca, si scontrava a vantaggio della trasparenza?

«Una vera risposta potrebbe darla solo Pasolini. Comunque chiariamo un aspetto. Le grandi aziende pubbliche sono un mondo complesso, dove ci sono scontri vivaci. Contrariamente a quanto si può pensare, non è sempre l'ideologia a distribuire i copioni. Non è facile stabilire chi è il buono e chi è il cattivo. Prendiamo l'Eni. Girotti non era un demonio. Aveva una visione superata rispetto a Cefis. Se Girotti ha assecondato le richieste di una certa parte politica, la Democrazia cristiana, è anche perché si trovava al centro di un sistema sbagliato, che non poteva e non sapeva come combattere. Era un ingegnere, capiva poco di conto economico, anche se aveva un'ottima conoscenza delle comunicazioni e dei metodi per sfruttarle, come del resto Cefis. Le tangenti, inutile fare le vergini, sono sempre state uno strumento per combattere le battaglie petrolifere sui mercati internazionali. Ma perché fare i fondi neri esteri, anziché i fondi esteri legali, e soprattutto perché piegarsi a richieste di piccolo cabotaggio, provinciali, distorsive per l'azienda? Questo non si può fare, pena la distruzione, sul lungo periodo, dell'azienda stessa. A questo mi sono opposto. La quotazione in Borsa, che obbliga alla trasparenza, ha salvato Eni, per fortuna».

Carlo è descritto come un uomo moderatamente di sinistra, estremamente colto e buon credente: si riconosce in questo ritratto?

«Mio zio Carlo Gray, magistrato, era anche un importante filosofo del diritto, e aveva curato l'edizione nazionale delle opere di scienza politica di Rosmini. Quando a metà degli anni Cinquanta insegnavo Scienza delle finanze alla Statale di Milano, come supplente di Ezio Vanoni, ero anche docente di questa disciplina alla Cattolica nei corsi serali, ero un economista liberal-socialista, vicino alla Cisl, avevo collaborato con Vanoni al suo piano, avevo scritto sulla rivista Aggiornamenti sociali diretta da padre Rosa, sulla nazionalizzazione elettrica e sulla congiuntura economica, ero poi stato consulente di Emilio Colombo, Arnaldo Forlani, Donat Cattin. Quindi direi sostanzialmente di sì, mi riconosco».

Il cattivo in Petrolio è Cefis. Di fatto si insinua sia lui il mandante dell'omicidio Mattei...

«Petrolio è un libro incompiuto, molto stratificato dal punto di vista cronologico, almeno questa è la mia impressione. Carlo sono io ma è anche e soprattutto Pasolini. Ovviamente ci sono alcune somiglianze e molte discrepanze tra me e i due Carli. Mi chiedo perché, in qualche misura, Pasolini si sia identificato in me».

E Cefis?

«Non credo alla versione Cefis mandante dell'omicidio Mattei. Cefis non c'entra. Cefis ammirava Mattei. Non so se fosse Cefis a condividere la visione di Mattei o il contrario. Fatto sta che Mattei si fidava di Cefis. Pasolini è stato depistato».

Da chi?

«Da qualche fonte Eni, a me sconosciuta. Cefis era un eccellente manager. Tenga conto che non aveva una formazione economica, come ufficiale di carriera. Eppure ne aveva una ottima comprensione, gli bastavano i numeri fondamentali, gli economisti direbbero i parametri, per capire la direzione da prendere. Si prestava a chiacchiere. Aveva una istruzione militare, anche per questo era gradito a Mattei, che apprezzava quel tipo di disciplina e mentalità. Certamente sapeva come ottenere informazioni e come utilizzarle. Ma non deve equivocare. Nella guerra partigiana, Cefis era stato il luogotenente di Mattei, inoltre era un uomo rispettato per le sue capacità nel campo della finanza. Era anche temuto, come può essere temuta una persona molto potente e molto riservata quale era. Ma fu il mandante dell'omicidio di Mattei? No. In compenso, perfino a qualcuno di Eni, poteva risultare comodo insinuare la responsabilità di una figura così misteriosa. E autorevole, a differenza di altri venuti dopo di lui».

Quale è la pista giusta, allora?

«Guardi che Pasolini aveva capito benissimo. Quelle parti sulla mafia, e sugli interessi francesi e americani che Mattei aveva messo in discussione... Quella è quasi la strada da seguire. Legga attentamente Petrolio. Pasolini intuisce, o forse sa: attentato mafioso su imbeccata dell'Oas, che svolgeva funzioni di servizio segreto deviato francese. Qualche studioso o commentatore chiama in causa anche la Cia: non è plausibile. Mattei stava organizzando un accordo con le multinazionali americane, lo avrebbe portato a casa di sicuro. Tra l'altro gli Stati Uniti erano rivali della Francia in quello scenario, se Mattei voleva mettere un piede in Algeria, tanto meglio per gli Usa... A un certo punto Pasolini si fissa su Cefis. Sarebbe interessante, ma è una questione filologica alla quale non so rispondere, capire come si intrecciano cronologicamente queste due diverse piste sulla scrivania di Pasolini».

Può esserci stato un balletto di manine intorno alla scrivania di Pasolini per spingerlo in una direzione invece che un'altra?

«Questo non lo so. Sono ipotesi. Una cosa si può dire. Graziano Verzotto, accostato agli omicidi di Mattei e Mauro De Mauro, aveva aiutato a concludere accordi petroliferi in Algeria, aveva rapporti stretti con l'Oas e aveva forse rapporti con la mafia, mai chiariti nonostante il suo nome affiori più d'una volta nel processo a Totò Riina, indagato per la presunta uccisione del giornalista Mauro De Mauro, che si occupava proprio dell'omicidio Mattei. Per carità: non ci sono prove contro Verzotto. Egli era un senatore democristiano, originario del Veneto, ex partigiano e capo delle pubbliche relazioni dell'Eni in Sicilia. Ha sempre detto e scritto di amare Mattei. Lo cito perché devo far osservare un fatto. Il libro che accusa Cefis, Questo è Cefis. L'altra faccia dell'onorato presidente di Giorgio Steimetz fu pubblicato dall'Agenzia Milano Informazioni di Corrado Ragozzino, di cui Steimetz è forse pseudonimo. La casa editrice era finanziata da Graziano Verzotto. Quel libro finisce sul tavolo di Pasolini. Per il resto posso ipotizzare che lo scrittore avesse fonti interne all'Eni. La pista Cefis a mio avviso viene dall'interno dell'Eni dove Cefis, in realtà legato a Mattei, era un fantasma ingombrante».

Ma cosa si diceva all'epoca, all'Eni, della morte di Mattei?

«Voci. Mafia come esecutrice. Troppe stranezze nel giorno dell'omicidio. Non era la prima volta che l'aereo era stato manomesso. Faccio un passo indietro, ho testimonianze di prima mano sul fatto che la pista mafia-Oas sia corretta. Riassumo un episodio, l'ho raccontato per esteso nella mia autobiografia. Nel 1962, era la fine dell'estate, l'Algeria era appena diventata indipendente, vengo messo al corrente di una operazione, nella quale sono coinvolto, da tenere assolutamente riservata...»

Aspetti professore, non lo riassuma. Mi lasci ripubblicare quel capitolo insieme con questa intervista.

«D'accordo».

Le carte su Cefis arrivavano a Pasolini dallo psichiatra Elvio Fachinelli, che aveva studiato a Pavia.

«Sì. Fachinelli era un'amicizia in comune tra me e Pasolini».

Lei ha conosciuto Pasolini?

«No».

Ma allora...

«Allora il tratto d'unione era Fachinelli. Il quale però era ossessionato da Cefis, evidentemente. Il cattivo non era Cefis. Però, come dicevo prima, a mio avviso Pasolini aveva anche una fonte interna all'Eni».

Lei come conosceva Fachinelli?

«Ambiente universitario pavese. Abbiamo entrambi studiato in collegio, io ero al Ghislieri. Fachinelli era più vecchio di un anno. Io sono sempre stato legato a Pavia, anche dopo aver terminato gli studi, in quanto lì divenni assistente ordinario di Scienza delle finanze. Non era difficile incontrarsi e conoscersi. Anzi, in una piccola città come Pavia era difficile non incontrarsi e non conoscersi».

Pasolini descrive Carlo in modo accurato...

«Sì, in qualche pagina sono davvero somigliante, perfino nell'abbigliamento e nella pettinatura. Credo abbia visto qualche foto sui giornali, o forse è stato tra il pubblico, nei convegni».

Pasolini descrive anche le case sue e dei suoi parenti in Piemonte?

«Il mio legame con Torino discende dal fatto che ho avuto la cattedra di Luigi Einaudi, e sono stato nel comitato scientifico della Fondazione Einaudi, insieme con personaggi di grande rilievo come Norberto Bobbio. Ma io sono lombardo».

Sì ma le case...

«Ci sono forti somiglianze, almeno in un caso. So cosa sta per chiedermi. Prevengo la domanda: no, Pasolini ovviamente non può esserci stato».

Ma allora?

«Allora, potrebbe aver letto il mio Introduzione alla politica economica, uscito per Einaudi. All'inizio c'è una nota in cui menziono mio zio Carlo Gray, a cui è dedicato il libro».

Carlo?

«Carlo, che tra l'altro è anche il nome del padre di Pasolini. Mio zio Carlo allestì per me una biblioteca nel palazzo Pitoletti a Crema. Era una gigantesca raccolta di testi giuridici ed economici, collocata in questo meraviglioso palazzo di famiglia seicentesco, palazzo di un'aristocrazia poi entrata in crisi. Tutto questo potrebbe riflettersi nelle case avite di Carlo, collocate in Petrolio nel Canavese. Vede, anche mia nonna produceva un liquore, non un vino come in Petrolio, riservato a me. Ma ripeto: Pasolini non c'è mai stato e il dettaglio, per quanto sorprendente, sarà casuale. La mia casa di campagna, tra l'altro, era in realtà una casa di montagna a Cervinia. In compenso mi sono fatto un'idea del perché collochi la casa nel Canavese».

Ovvero?

«È un fatto tutto letterario. Doveva essere la casa borghese di quella che Pasolini chiamava la vecchia Italia, non sarà un caso che Petrolio sia pieno di citazioni da Guido Gozzano. La Agliè di Gozzano è nel Canavese».

Qual era la tesi del suo manuale, che fu anche un successo editoriale?

«Economia sociale di mercato, per dirla in maniera stringata. Le aziende pubbliche hanno la funzione di stimolare e indirizzare il mercato. La politica fa le regole ma non può allungare le mani e servirsi a piacimento delle aziende. Altrimenti degenerano. Quello che è successo in Italia».

Secondo Lei, Pasolini è stato assassinato in relazione al caso Mattei? Sapeva qualcosa di troppo o si pensava sapesse qualcosa di troppo?

«Mah. Io consiglierei di allargare il quadro: ci metta non solo il caso Mattei, ma anche le vicende Eni degli anni Settanta, in particolare successive alla crisi petrolifera del 1973, che generò un grande rialzo del prezzo del barile di petrolio. Il rialzo consentiva alle imprese che vendevano petrolio in Italia, ma avevano quote di pozzi nei Paesi petroliferi, di fatturare all'importazione al prezzo di mercato, tenendo all'estero i fondi in nero. Ciò valeva anche per il gasdotto Eni con l'Urss su cui vi era una tangente del 6 per cento che andava pro quota al Pci. Veda il libro Oro da Mosca di Valerio Riva. A parte questo, c'è tanto da capire. Sono molte le morti misteriose per suicidio-omicidio legate all'Eni, anche in anni più recenti: caso Castellari, direttore generale partecipazioni statali; caso Cagliari, presidente Eni; caso Gardini, presidente Ferruzzi-Enimont.

Povero Pasolini, si fece passare la sua uccisione come un fatto sessuale-omosessuale, ma potrebbe essere stato un fatto di origine politico-finanziaria, con radici internazionali».

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