Il pettegolezzo non è un venticello ma un tornado

Caro Granzotto, in riferimento al Ruby-gate non potevamo cadere più in basso: siamo un Paese di pettegoli che spettegolano di continuo. Mai s’era visto un tale abbrutimento della società. La gente civile, evoluta e perbene non spettegola.
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Ma per carità, caro Sarti! Scommetto che lei è di quelli che «Io pettegolezzi non ne faccio». Come è possibile se l’ottanta per cento della produzione verbale dell’umanità non è rappresentato da discorsi «seri», bensì - vada su una spiaggia d’estate, vada in un bar, in uno scompartimento ferroviario - da chiacchiere di poca importanza, fra le quali il pettegolezzo? Ovvero discorso indiscreto o, per dirla col sommo Niccolò Tommaseo, «ciarla leggiera e frivola». Il pettegolezzo non sempre è maligno o rivolto «con intenzione non buona». «Lo sai che Filippo ha le corna?» è ciarla della seconda categoria. «Lo sai che Mariuccia ha licenziato la cameriera?», ciarla della prima. Entrambi, pettegolezzi. Senza i quali le biografie d’uomini (e donne, certo) illustri o meno sarebbero prive di quel pepe che le rende così interessanti. Cos’altro sono gli aneddoti se non pettegolezzi? Tiberio governò con saggezza e giustizia 250 milioni di sudditi felici. Ma quel che ancora - e grazie alla malalingua, a quel pettegolone di Tacito - ne fa un personaggio memorabile sono gli ozi o vizi, se preferisce, di Capri. L’ambito sessuale, poi, è da sempre stato il fertilizzante principe del pettegolezzo (se dà una scorsa a Ezechiele, 23,4, ne troverà uno spettacolare sui gusti dell’egiziana Oholiba). È sempre andata così, caro Sarti: l’unica novità è che oggi, taluni concittadini - chi al lavoro nella redazione di Largo Fochetti e chi alla Procura milanese - dal pettegolezzo vogliono trarre motivo di condanna etica - e non è certo affar loro - e, come non bastasse, civile.
Per rimanere alle alte cariche istituzionali, l’uomo a tal livello probabilmente più spettegolato, e spettegolato pubblicamente, fu il presidente francese Félix Faure.
Senta come andò: nel tardo pomeriggio del 16 febbraio del 1899, sollecitato dall’insistente urlare di una donna, un valletto si precipitò nel «Salon bleu» dell’Eliseo. Vi vide Faure steso su un divano, cadavere. E china su di lui, una donna, che poi si seppe essere la escort d’alto bordo Marguerite Steinheil, in arte Meg. China, dicevo, e impossibilitata a levarsi perché nello spasimo della morte le mani di Faure si erano strette a tenaglia nei capelli della bella Meg, fino a un istante prima, si presume, accarezzati (per liberarla dovettero tagliarglieli). La causa del decesso fu presto accertata. Monsieur le President era morto per avere «troppo sacrificato a Venere». L’orgasmo, raggiunto a seguito di una pratica cara a Bill Clinton - e non solo a lui, questo è evidente - l’aveva accoppato. Sull’episodio le gazzette si buttarono a pesce, spettegolando a più non posso. Era - e come non poteva esserlo? - l’argomento del giorno. Meg fu subito ribattezzata, con macabra e al tempo stesso goliardica ribalderia, «La pompe funébre». Gli chansonniers ironizzarono sul fatto che il povero Faure «il voulait être César, il ne fut que Pompée» e non credo serva la traduzione per coglierne il calembour. Eppure, nonostante settimane di intenso spettegolamento la figura istituzionale di Félix Faure ne uscì indenne e questo per il principio che il privato è privato, il pubblico un’altra cosa.

Il presidente fu inumato nel romantico cimitero del Père-Lachaise, entro una maestosa sepoltura adorna di bandiere chiusa da bronzee corone d’alloro. E sempre a Parigi, una ariosa avenue e financo una stazione della metropolitana sono a lui dedicate, a imperitura memoria.
Paolo Granzotto

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