Philip K. Dick e l’estrema visione del mondo

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Alla fine della vita tutti fanno i conti con Dio. Alla regola non si sottraggono gli scrittori, ed è la ragione per cui nessuno si sottrae dal leggere le opere ultime come quelle terminali, testamentarie, definitive. Prima di morire Fëdor Dostoevskij dice l’ultima parola su Dio nei Fratelli Karamazov; cento anni più tardi Philip K. Dick (1928-82) pubblica La trilogia di Valis (ossia gli ultimi tre libri da lui scritti e pubblicati: Valis, 1981; Divina invasione, 1981; La trasmigrazione di Timothy Archer, 1982), «ormai entrata nella leggenda», stravagante, magnetico trattato filosofico con tuoni teologici in cui, secondo gli esegeti più accorti, Dick vuole spiegare (e spiegarsi) l’esperienza mistica accadutagli nel 1974 (un raggio rosa gli trapassa il cervello scaricando vagoni di nozioni esoteriche), certamente mette una pietra sopra al genere romanzo.
Deciso a cercare me stesso nella mente di un altro, laborioso fedele della cabbala (sono nato cento anni dopo la pubblicazione dei Karamazov), qualche anno fa mi affannai a cercare la trilogia di Dick, con scarso successo. La pubblicava Mondadori, in scomodo ma aitante cofanetto. A voi va meglio, avete i tre libri in uno, nella stessa traduzione di allora (a cura di Delio Zinoni e di Vittorio Curtoni), riedita da Fanucci con la supervisione di Carlo Pagetti.
Quasi tutti i romanzi hanno una pretesa di impossibilità, sono delle sfide fino ai limiti del buonsenso. Tuttavia, alcuni romanzi sono apparentemente insensati e assurdi (Pierre o delle ambiguità di Herman Melville, Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, Cronache maritali di Marcel Jouhandeau...), e si lasciano amare proprio per la loro ingorda sfrenatezza. Altri romanzi, invece, non dovrebbero proprio essere scritti. È il caso della pazzesca trilogia di Dick, che è il referto medico di un folle, uno Stavrogin cyberpunk che con ardita arte oratoria ci voglia spiegare i recessi del male; un Lucrezio in 3D malato di megalomania cosmica e che ci spieghi perché la dissoluzione è l’unica legge del mondo. Ma in realtà con queste frasi non faccio che invogliarvi a leggere Dick. La realtà nuda e cruda è che nel romanzo, dalla trama allucinante e inspiegabile, Dick fa gocciolare di tutto, sul perno del giorno capitale in cui fu ucciso John Lennon: da Wagner a D.H. Lawrence, dallo poesie di Yeats all’I-Ching, dai manoscritti ritrovati a Nag Hammadi alle lettere di San Paolo, da Mircea Eliade a Heidegger, dal Wozzeck di Alban Berg ai Kiss. In questa specie di spremiagrumi Dick fa ciò che nessuno scrittore dovrebbe mai fare: svela se stesso, le sue millimetriche convinzioni (ovviamente, sconfessandole grazie alla botola parapalle della follia), i fondamenti di tutti i suoi romanzi precedenti. Errore madornale: i grandi romanzi hanno la grandezza dell’ambiguità (e ciò che è celato non va scoperto), se Dostoevskij c’intrattenesse con le sue valide letture, dopo un po’ sarebbe insopportabile. Tuttavia, non tutto è da cestinare: la Cryptica scriptura posta in appendice al primo libro (Valis), con frasi che stupiranno i milioni di Harry Potter del pianeta («L’Impero non è mai cessato»; «Ha vissuto tanto tempo fa ma è ancora vivo»); una manciata di asserzioni che poeticamente incuriosiscono («Noi siamo i brutti costruttori con le mani simili ad artigli. Che ci nascondiamo per la vergogna»), la terza parte (la migliore) ossia La trasmigrazione di Timothy Archer...
Diciamocela chiara: se Dick è un fenomeno editoriale e cinematografico la ragione è che i suoi libri non ustionano più, è valvola storica anche lui. La trilogia di Valis è una specie di enciclopedia dello scibile occidentale che prolunga le gite zen di Kerouac e le fantasmagorie allucinogene di Borroughs la cui visione del mondo è pienamente gnostica (badate al capitolo 12 di Valis e al capitolo 16 di Divina Invasione, stenografie del fondamentale testo della Gnosi egizia, la Pistis Sophia). Dick esplicita una tesi interessante: il Romanzo Americano è fondamentalmente gnostico. Traccia un percorso conoscitivo che conduce il lettore dalle tenebre di questo mondo, dominato dall’accidia e dalla piena malvagità di un Dio avido e vendicativo, alla luce dell’altro mondo, spirituale, creazione placida plasmata dal Dio buono e amorevole, paterno, del Nuovo Testamento. Tutti i romanzi americani sono delle apocalissi gnostiche, cioè delle violente rivelazioni: da Moby Dick alla Lettera scarlatta, dalla Coppa d’oro di Henry James all’opera di Faulkner, di Flannery O’Connor fino a Meridiano di sangue di Cormac McCarthy.

La solfa non cambia nell’opera di Saul Bellow, di Bernard Malamud e di Philip Roth, dove Dio sembra un pazzesco, voluminoso, grottesco Falstaff. Per tutto il resto, follia estrema ed estrema visione del mondo, l’intera Trilogia di Valis è surclassata e annichilita da un versetto a casaccio di Re Lear: così è se vi pare.

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