«Più Solženicyn per tutti»

Intervista con Ljudmila Saraskina, la studiosa che per otto anni ha raccolto i racconti e le confidenze dell’autore di «Arcipelago Gulag». Realizzando la sua biografia in vita

da Mosca
«Un’esperienza unica. Non so quanti altri scrittori abbiano avuto un’occasione come quella che è stata data a me». Ljudmila Saraskina, nota studiosa di letteratura, è l’autrice di una monumentale biografia di Solženicyn appena uscita in Russia (martedì prossimo verrà presentata al Centro culturale «Biblioteca dello Spirito» di Mosca): oltre 900 pagine, frutto di otto anni di lavoro a contatto con il celebre scrittore.
Un caso davvero singolare, se si pensa che nemmeno grandi classici come Puškin, Dostoevskij o Tolstoj hanno avuto l’onore di sfogliare da vivi una loro biografia. Questo spiega anche l’iniziale resistenza di Solženicyn - che l’11 dicembre festeggerà 90 anni - davanti alla proposta della casa editrice moscovita Molodaja Gvardija, che nel 2005 ha affiancato alla collana di vite di russi illustri la serie «La biografia continua...», dedicata proprio ai vivi. Che si tratti di un’originale trovata editoriale o di un astuto escamotage, una cosa così in Russia non si era mai vista. Tanto che anche Solženicyn ha ceduto, autorizzando la biografia e aprendo in esclusiva all’autrice il proprio archivio familiare.
Incontro Ljudmila Saraskina nell’appartamento di Mosca dove nel ’74 venne arrestato Solženicyn, al numero 12 della centralissima via Tverskaja (oggi sede della Fondazione a lui intitolata). Facendomi accomodare in quello che una volta era lo studio del premio Nobel, la studiosa mi indica una finestra nel palazzo di fronte: «Da quel punto - spiega - un ufficiale del KGB teneva costantemente sotto controllo Solženicyn, segnalando tutte le visite che riceveva».
Dopo una vita intera passata a studiare Dostoevskij, com’è arrivata a Solženicyn?
«È stato lui ad arrivare a me! La sera del 3 gennaio 1995, rispondendo al telefono, sentii all’altro capo: “Sono Solženicyn!”. Non me lo sarei mai aspettato, quasi mi prese un colpo. In America aveva letto i miei libri e ora, rientrato in patria, mi chiedeva un aiuto a orientarsi nel mondo letterario russo: era stato assente per vent’anni...».
Così è iniziata la vostra amicizia.
«C’incontrammo per la prima volta proprio in questa stanza l’11 gennaio ’95. Pochi giorni dopo m’invitò alla prima di una sua opera teatrale, voleva il mio parere. Da allora iniziammo a vederci spesso, quindi mi coinvolse nella giuria di un premio letterario che sognava da tempo».
Come le venne l’idea di scrivere una sua biografia?
«Nel 2000 stavo lavorando a un libro sull’influsso degli scrittori russi su Solženicyn, perciò mi ero costruita una specie di “canovaccio” della sua vita per capire quando aveva conosciuto i classici e rispondere ad alcune domande: cos’ha voluto dire per Solženicyn leggere già a dieci anni Guerra e pace? Perché a Dostoevskij è arrivato solo da adulto? Stilando questa cronologia, però, mi accorsi di quante leggende e imprecisioni ci fossero riguardo alla sua vita».
Ironia della sorte, per un uomo che ha impostato tutta la sua esistenza all’insegna dell’appello «Vivere senza menzogna»...
«Era tale la mole di falsità... Dopo due anni di ricerche gli telefonai dicendogli il mio sconcerto. Lui rispose: “Venga da me”. Andavo a trovarlo a Troice-Lykovo, alle porte di Mosca, e gli rivolgevo una raffica di domande per ricostruire i fatti, registrando le sue risposte. Andammo avanti così per tre anni... ma sull’ipotesi di una biografia fu sempre chiaro: “Non finché sono vivo”».
Ma lei non si arrese...
«Sì. Lo facevo per me, per scoprire la verità. Se il destino mi aveva donato l’amicizia con un uomo simile, questo lavoro era un mio dovere. Anche senza sapere a che cosa sarebbe servito».
La situazione si sbloccò nel 2005, grazie alla casa editrice Molodaja Gvardija...
«Ritirò il suo niet e io mi misi all’opera. Secondo gli accordi avrei dovuto consegnare tutto entro 18 mesi. Una vera pazzia, ma ce l’ho fatta».
Con l’aiuto di Solženicyn?
«Ha letto di persona ogni capitolo, segnandomi a margine le correzioni. Senza la sua memoria formidabile, sarebbe stato impossibile ricostruire certi episodi. Raccontando il suo arresto nel ’45, per esempio, avevo scritto che alla Lubjanka era stato costretto a indossare la divisa dei detenuti. La settimana dopo, mi sono trovata un appunto a bordo pagina: “La Lubjanka era l’unica prigione dove i detenuti non avevano una divisa ma tenevano i propri vestiti”. Come avrei potuto saperlo?».
Sia in esilio, sia dopo il rientro in patria, Solženicyn ha sempre ricordato alla nazione le sue radici spirituali. Secondo lei, nella Russia di oggi questo richiamo è ascoltato?
«La Russia è varia. C’è una Russia che ama molto Solženicyn e un’altra che lo bolla come reazionario. Gli oligarchi non lo amano perché critica chi si è arricchito a danno del popolo. Quando Putin lo scorso giugno gli ha assegnato il Premio di Stato, però, ha dichiarato che molto di ciò che ha fatto era su consiglio e raccomandazione di Solženicyn. Non direi che oggi sia un “profeta inascoltato”. Il suo impatto sulla società non è misurabile come quello di chi guida un partito, ma il suo influsso morale è enorme: Solženicyn è un freno al male e il suo solo rientro in patria, nel 1994, è stato la prova che la Russia non era ancora morta. Lo diceva la gente semplice che gli è andata incontro a Vladivostok, l’ho percepito nettamente anch’io: con lui potevamo resistere».
Come l’ha segnata l’amicizia con un uomo così straordinario?
«Solženicyn mi ha insegnato a pormi degli obiettivi che nessuno si pone. Non ho mai incontrato nessuno così esigente con se stesso, ripeteva sempre: “Io sono il mio lavoro”. Fin da giovane cercava di non sprecare un istante. Pensi che per stare fino all’ultimo in biblioteca non dava mai appuntamento alla sua ragazza prima delle 22. Voleva dilatare la sua vita all’infinito. Così anche oggi: quando andavo a trovarlo, lavoravamo dalle 10 del mattino alle 20 di sera. La prima volta, all’ora di pranzo, mi chiese: “Non mangerà mica per un’ora intera?”».
Giudica il suo lavoro una sorta di impresa?
«Quale impresa? Ho lavorato in condizioni ottime: in un Paese libero, senza temere perquisizioni, utilizzando il computer...».
Che effetto le ha fatto raccontare una storia in cui manca la parola «fine», sapendo inoltre che il suo protagonista l’avrebbe letta?
«È stato straordinario. Solo lavorando a questo libro posso dire di aver imparato a scrivere. Ho sperimentato una responsabilità enorme, mai provata prima; non potevo sbagliare, mi sentivo come un funambolo sul filo. Raccontare di un uomo vivo significa parlare dei suoi amori e dolori, delle sue sofferenze, sapendo che il padrone di questa vita rimane lui: perciò dovevo usare delicatezza e prudenza.

È stata un’esperienza incredibile di unione con la storia di Solženicyn: mi pareva di essere con lui a scuola, in guerra, nel Gulag... Penso che questa biografia appartenga molto più al mio destino che al suo. Ora posso dire: “È successo nella mia vita!”».

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