Una campagna faticosa per il presidente della Camera, impegnato a saltare in continuazione dalle piazze agli studi televisivi (è suo il record di presenze sul piccolo schermo), e ogni volta sottoposto al devastante stress di cambiare giacca e abbinare la cravatta giusta. Che l'ex numero uno della Fiom fosse un elegantone si sapeva, ma questi due mesi hanno confermato che la metamorfosi è irreversibile: il biennio trascorso nel piano nobile di Montecitorio gli ha cambiato il Dna. Basta tute blu, basta urla nei comizi; ora soltanto cachemire e «bon ton» da salotto, mai una parola sopra le righe o un'invettiva, solamente i toni pacati da uomo delle istituzioni quale è stato, e che più saranno consoni ai privilegi che lo attendono come ex presidente di un ramo del Parlamento. Un distacco signorile e composto, sottolineato dalla promessa che questa sarebbe stata la sua ultima campagna elettorale: lo attende la categoria che da sindacalista ama di più, quella dei pensionati. E Rifondazione? La Sinistra arcobaleno? I centri sociali? Ragazzi su le maniche, raccomanda il vecchio saggio ai vari Diliberto e Mussi, Vendola e Pecoraro Scanio, Migliore e Ferrero, i luogotenenti di un cartello elettorale che evoca un fenomeno atmosferico di brevissima durata. Non c'è il partito e non c'è neppure il leader. Perché Bertinotti, in questi due mesi, si è speso a combattere più Veltroni che Berlusconi, a rimproverare Prodi che gli addossava il fallimento del governo, a rimpiangere ciò che poteva essere e non è stato («per colpa dei moderati, non mia»).
Salvo poi farsi andreottiano e sposare la politica dei «due forni» con il Partito democratico: nemici al centro, alleati in periferia. Una questione che comunque tocca il compagno Fausto fino a un certo punto. Lui è ormai un agiato sindacalista sul viale del tramonto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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