Il recente sciopero generale, decretato a Parma mercoledì 30 marzo scorso, mi ha suggerito alcune considerazioni sul carattere degli italiani, che mi risolvo a rendere pubbliche proprio per ragioni morali ed educative, pur non avendo naturalmente la minima fiducia che nulla, dico nulla, possa mai scuotere gli italiani in genere, torinesi o napoletani, fiorentini o bolognesi, dalla loro tranquilla passività e in modo particolarissimo la categoria dei professori.
Lo sciopero generale chiedeva la solidarietà di tutti i lavoratori, professori compresi, ma questa solidarietà è venuta a mancare quasi completamente da parte dei professori, non perché i crumiri avessero motivo di negare la loro solidarietà alle maestranze della «Bormioli»; questo no certamente, anzi, tutti sapevano che era un tipico sciopero economico, uno di quei casi nei quali la solidarietà di tutti i lavoratori è insieme un dovere e un diritto ma perché negli italiani e nelle italiane funziona in modo patologico e però incurabile il senso della pecora, il piacere di esser pecora.
Il mattino dello sciopero si telefona rispettivamente o al Direttore o al Preside o in Segreteria. Pronto! C'è sciopero?
Se il Direttore, il Preside o la Segreteria risponde «Sì, si può stare a casa» allora si fa sciopero lietamente perché c'è il permesso dell'Autorità, se risponde «no» si va a scuola, lamentandosi naturalmente per la mancata vacanza.
Veramente monumentale è il caso di un professore, fino a qualche mese fa grosso gerarca del Partito Socialista Italiano, che, anche lui, non ha scioperato «perché ha risposto un tantino imbarazzato a chi gliene chiedeva non c'è a Parma un sindacato al quale rivolgersi».
Questi uomini sono spesso i condottieri della classe lavoratrice.
Quello che è grave in tutto ciò è che, precisamente le categorie dette intellettuali (a torto, per carità!) presentano quasi senza eccezioni questa carenza, che ha costituito il più vero terreno sul quale ha potuto proliferare il fascismo: carenza di una personalità morale in grado di decidere senza bisogno di conoscere prima l'umore del Preside, del Direttore, ecc.
Qualche cosa di analogo è avvenuto appunto col fascismo.
Il fascismo non era, almeno inizialmente, un movimento illiberale e intollerante; lo divenne rapidamente più che per volontà cosciente e precisa di Mussolini, per l'omertà grandiosa, l'acquiescenza senza limiti, la viltà sconfinata, la mancanza completa di coraggio morale degli italiani e particolarmente di quei chierici, dei quali ci dà un quadro non dimenticabile Julien Benda, di quegli uomini che avrebbero dovuto avere la funzione di guida, di capi spirituali e religiosi nel senso più alto di questo termine.
Ecco perché nel nostro Paese la democrazia tende ad autotrasformarsi in governo assoluto (è un motivo, questo, sfuggito a Vilfredo Pareto) anche se i capi sono per avventura dei buoni democratici, perché sono gli stessi subordinati che rinunciano, con umiliante sadismo, alle proprie prerogative, ai propri diritti, alla propria dignità, alla propria personalità e questo spiega abbondantemente che Mussolini abbia potuto per venti anni portare in piazza 45 milioni di italiani, tutti o quasi tutti (naturalmente sempre solo a parole) antifascisti e come oggi, il solo timore di dispiacere all'Autorità possa far fallire uno sciopero giusto e legale insieme.
Non a caso il fascismo non allignò un solo momento nella indomita Inghilterra (quali che siano i suoi torti indubbi in altri campi) anche quando sembrò che tutto il resto del mondo dovesse prima o poi piegare sotto la decadenza delle dittature.
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Queste osservazioni contingenti e relative a un episodio, in sé insignificante, ne suscitano altre su un argomento che mi sta molto a cuore: il carattere degli italiani, e, diciamolo pure, la loro viltà.
Preciso subito che quando parlo di viltà degli italiani non dimentico naturalmente che la storia del nostro Paese ha pagine gloriose, ma proprio i popoli vili nel senso che a me interessa qua, sono i più ricchi di episodi di eroismo e di belle gesta. «Vile» moralmente è lo stesso che dire «feroce e reazionario» come ci definisce De Sanctis. Siccome la frase è un gioiello di esattezza psicologica val la pena di riportarla integralmente. Dice De Sanctis: «L'Italia, se non ci si bada, cammina a gran passi verso il regno dei violenti e degli ignoranti, con tutte le conseguenze che insegna la storia; voglio dire con quella reazione della gente onesta, tanto poltrona e dormigliona nella sicurezza quanto feroce e reazionaria nel pericolo. Così saremo dei buoni latini e vivremo nelle convulsioni periodiche» (Scritti politici, vol. VIII). E se è così anche oggi, come possiamo pretendere che il popolo italiano sia diverso da quello che è (l'impiegato, lo studente, l'operaio, il contadino) quando da noi l'uomo che ha le funzioni della cultura, è nella realtà, un tremebondo impiegato statale, il cui unico imperativo categorico è quello di agire in modo che, qualunque cosa accada, non ne siano compromessi lo stipendio e la carriera? Abituato ad essere sfruttato senza pietà dal governo, qualunque esso sia, e a sfruttarlo con pari zelo ogni qualvolta se ne presenti la possibilità, egli ignora nel modo più tranquillo e rigoroso, che proprio a lui spetterebbe la vera funzione educativa, cioè la funzione morale, che è per essenza coraggio.
Ci sono, è vero, in Italia, e a decine di migliaia, gli eruditi, i docenti, i professori, i maestri, ma non troviamo che in troppo esigua misura gli uomini spirituali, la personalità per la quale la cultura non consiste nell'erudizione e nella specializzazione, ma in quell'alimento morale che fa che il vero uomo di cultura corrisponda, come esigenza e come missione, a quel tipo superiore di umanità, che diffonde luce
spirituale, che è centro di verità e di coraggio, non solo, ma che, proprio a cagione di questa suprema coscienza morale è pronto a pagare di persona, cioè ad assumersi le responsabilità conseguenti al proprio modo di sentire.
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