Paolo Marchi
Caffè mania: un po come col vino (ne beviamo sempre meno ma sempre più buono perché è ormai un piacere), stanno calando anche i consumi di caffè al bar, meno 3 per cento ogni anno. Eppure mai come ora se ne parla come di un qualcosa di unico, unambrosia nera che trascende il mero contenuto della tazzina. Siamo ormai ai sommelier dei chicchi di arabica, ai dottoroni che discettano di cru e di miscele, di macchine e di cialde, di moka e di napoletane. E i prezzi schizzano allinsù.
Restiamo in strada, un mondo ben distinto da quello del caffè fatto in casa, magari per il caffelatte, il modo migliore per rovinare un caffè e uccidere il latte. Un espresso costa poco, allapparenza perché se si va oltre il listino se ne scoprono delle belle come ha evidenziato Edi Sommariva, segretario generale della Fipe-Confcommercio. Intanto non cè un prezzo uniforme: da Reggio Calabria a Bolzano non corre solo lItalia intera, ma anche il lievito che fa salire il prezzo: dai 61 centesimi calabresi ai 96 bolzanini, non male. Mai però come il centuplicare di valore nei passaggi tra crudisti, torrefattori (circa ottocento) ed esercenti. Tenetevi forte: sette grammi di polvere di caffè costano in partenza 0,0124 euro (zero virgola zero più un quasi nulla), quindi 0,15 e al bancone 76 centesimi, media nazionale.
Questo spiega perché i gestori lespresso se lo tengono ben stretto e soddisfano ogni capriccio, dallo schiumato (solo schiumetta e niente latte) al macchiatone, un americano molto macchiato, sa di poco ma riscalda, passando per il gocciato (solo le prime gocce, pura essenza, basta per bagnarsi il palato) e magari per il pagato, una tazzina pagata e lasciata come pensiero delicato a chi non può permettersela.
Quale che sia il ghiribizzo del momento (cè chi ama ripassare per sé il fondo dellultimo espresso: acqua sporca in versione light), ogni giorno un italiano su due si beve il suo caffè al bar, compresi quelli che poi diventano cappuccino, ovvero gli espressi consumati sono 30 milioni al dì (e lincasso finale di 21 milioni di euro). E se impressionano i prezzi di vino o superalcolici, il giro daffari assicurato dal caffè vince su qualsiasi altro: nelle insegne tradizionali tocca quasi il 52 per cento (51,7), seguono bibite (20,65) e alcolici (10,24).
Forse il dato che stupisce di più, è il peso dei chicchi consumati ogni giorno: 192 tonnellate. E se al bar in genere vengono macinate delle miscele, ricche di arabica con una certa percentuale di robusta per dare più corpo, quelli che fanno impazzire sono i caffè cosiddetti mono-origine, i chicchi in purezza, per dirla alla francese i cru.
E qui ci si può sbizzarrire, a patto di avere soldi da spendere e a volte pure scarso senso del ridicolo. Il caso eclatante ha un nome insolito: Kopi Luwak. Letto in fretta sembra il nome di unala ungherese o di un brevetto per internet, invece non cè «cru di caffeina» più esclusivo e caro. Arriva dallIndonesia, nella cui lingua la parola kopi sta per caffè. E Luwak? È il nome di un predatore notturno, una sorta di volpe che vive sugli e attorno agli alberi. Questo magari anche simpatico mammifero va ghiotto delle bacche rosse del caffè che mangia come noi uomini facciamo con le ciliege. Con una differenza però: noi i noccioli li sputiamo, lui no, li ingurgita e poi li espelle, naturalmente in direzione opposta rispetto alla bocca. Capito? Popò e caffè. Solo che nel suo caso le bacche assicurano una deiezione dorata visto che non cè caffè più caro, da Peck a Milano 448 al chilo o 48 alletto che disturba meno. Particolare demoralizzante: a dicembre, è risultato il caffè più venduto. E il secondo? Il Blue Mountain, jamaicano. Ovviamente il secondo più caro: 209,50 euro. Il problema è che molti acquistavano il Kopi Luwak solo per spendere e spandere. Che sia sublime poco importa, che sappia di cioccolato e nocciole anche.
E anche se Hemingway diceva che «la caffeina mette luomo a cavallo e la donna in imbarazzo», bisogna stare attenti alleffetto contrario dopo leccitazione iniziale.
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