Il piano di SuDario? «Dobbiamo copiare il Berlusconi del ’94»

RomaNell’acquario romano, Dario Franceschini cerca di dare la rotta al partito ma il timone sbatacchia. Un po’ di qua un po’ di là, stando ben attento a non andar per scogli. Evitati accuratamente, quindi, i pericolosi gorghi formatisi negli ultimi giorni. E così, i nodi restano tutti lì. Partito aperto ma soltanto a parole. Grillo? Nemmeno citato. Alleanze: devono essere «credibili». Con chi, però, non è dato sapere. Antiberlusconismo: addio visto che «abbiamo sottovalutato per troppo tempo il valore assoluto della libertà» e «abbiamo rincorso la destra su tanti temi»? Però poi viene giù l’auditorio quando cita il «conflitto di interessi» e giura che «non possiamo restare ancora fermi e silenti». Muto come un pesce sull’analisi delle recenti sconfitte elettorali. Qualche frecciata a D’Alema e al prodismo; e poi l’ammirevole ammissione: «Se voti destra sai cosa voti, se voti di qua non sai cosa voti». Parafrasando Arbore e il vecchio spot sulla birra: meditate gente, meditate! La conclusione del suo intervento sulle note perfette di Better days di Bruce Springsteen. Giorni migliori.
Dario arriva con le maniche della camicia obamianamente arrotolate e si sbraccia a salutare e ringraziare la platea. In prima fila Fassino, Realacci, Damiano, Treu, Chiamparino, Marini, Gentiloni e Fioroni. Più defilati Soro e Finocchiaro che smanetta col ventaglio per refrigerarsi un po’ nel torrido catino romano. SuDario suda e parte in apnea con la sua filippica. Cinque parole cardine per non far affogare definitivamente il Pd: fiducia, regole, uguaglianza, merito, qualità. Prova a nuotare al largo, Dario. Forse troppo: «La destra italiana pensa alle prossime elezioni. Noi democratici pensiamo alle prossime generazioni». Poi prova a tracciare i contorni di un «nuovo riformismo che abbia il coraggio di sfidare le destre non rincorrendole, non limitandosi a proporre correttivi ai modelli sociali che ha imposto, ma mettendo in campo una gerarchia di valori proiettata sul futuro». Parole. Il modello, così si capisce meglio, è quello di Obama; a cui viene affiancato l’indiana Sonia Gandhi. Ma l’altro punto di riferimento è il Berlusconi del 1994: «Lui rappresentava una proposta di cambiamento. Dobbiamo partire da lì. Dobbiamo essere una forza che crede nel futuro». La sfida è ambiziosa e per rendere meglio l’idea, Franceschini non lesina critiche a quelli venuti prima di lui: «Dobbiamo ricostruire un’identità nel nostro campo. La destra... ha avuto stabilità negli assetti e un leader unificante. Ha potuto costruire un’identità attorno a messaggi chiari». Mentre «nel nostro campo c’è stata instabilità totale nei leader, nei partiti, che si sono sciolti, ricostituiti, sostituiti, nei governi fragili». E quindi «non siamo riusciti a trasmettere che sensazioni indistinte, non messaggi chiari e univoci». Servono quindi «poche parole chiare». Quali siano però, boh. Nell’acquario, Dario alterna bracciate di maanchismo a schizzate di antiberlusconismo: dalla parte dei lavoratori ma anche degli imprenditori; per i diritti ma anche per i doveri. Cita le regole, con il rispetto delle quali «non avremmo avuto i disastri di Viareggio, le conseguenze del terremoto dell’Aquila, 1.300 morti sul lavoro». Ed è tutto un battimani.
Ma il vero boato arriva quando parte lo schiaffo a D’Alema, Prodi e a tutto il centrosinistra passato, allorché cita il conflitto di interessi. «Dobbiamo dirlo. Il centrosinistra ha colpe precise nel non aver approvato una normativa sul conflitto di interessi quando era maggioranza dal 1996 al 2001». La platea somiglia a una curva da stadio. Molto meno quando Dario apre uno spiraglio alla possibilità di fare le riforme insieme alla maggioranza per «modernizzare lo Stato». «Non ci sottrarremo alla possibilità di condividere, anche da subito, con i nostri avversari una riforma che renda più efficace l’azione di governo, cominciando dal passaggio a una sola Camera legislativa, al Senato federale e a un dimezzamento dei parlamentari».
Poi i compagni di strada: «Non torneremo a quella stagione delle coalizioni frammentate e litigiose, costruite con l’unico collante del nemico. Formeremo un’alleanza che dia agli italiani la garanzia di un programma condiviso e realizzabili». Con chi non è dato sapere ma «non torneremo al centro-sinistra col trattino».
Infine, «bisogna fare il partito». Sembra facile. Franceschini prende una boccata d’aria e poi torna a immergersi: «Qualsiasi cosa accada resteremo insieme. Abbiamo bisogno di un confronto vero e onesto tra visioni differenti sul futuro».

Già, perché lì dentro i pesci sono tanti e ancora diversi: «Diversità che sono ricchezza se si cerca e si trova la sintesi». E la sintesi arriva subito dopo con il giudizio sprezzante di Rosy Bindi: «È evidente che lo spessore politico sta con Bersani e non con Franceschini».

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