Nellestate 2007 quando Piazza Affari si è consegnata alla Borsa di Londra era convinta che il matrimonio lavrebbe aiutata a crescere in maniera esponenziale, a vincere la tradizionale ritrosia a quotarsi del mondo industriale italiano. A un anno e mezzo di distanza, queste speranze si scontrano con la realtà di un listino che, complice una crisi finanziaria mondiale con pochi precedenti, ha perso 326 miliardi di capitalizzazione da gennaio ed è sempre più «asfittico» anche rispetto al pil, di cui rappresenta poco più di un terzo (35,3%). Al punto che Piazza Affari (543 miliardi la capitalizzazione a giugno, diventati 400 miliardi venerdì scorso) è scivolata dal 14° al 18° posto nella classifica delle borse mondiali, superata da Brasile, Russia e Corea.
A certificare la disfatta (Milano era undicesima solo due anni fa) è Mediobanca nella tradizionale analisi «Indici e dati 2008». Oltre 800 pagine di numeri e tabelle, dove Piazzetta Cuccia dimostra inoltre come linvestimento azionario possa risultare amaro anche sul lungo periodo. Ad esempio i risparmiatori che nel gennaio 99 hanno scommesso sulla Borsa oggi sono in perdita (meno 0,2%) anche senza considerare la morsa dellinflazione. Il calcolo parte dallindice di Borsa elaborato dalla stessa Mediobanca ma poco cambierebbe con il Mibtel, quindi se si sbaglia la tempistica, essere «cassettisti» e diversificare, non basta.
Piazza Affari sempre più «mini». Dai 724 miliardi di dicembre 2007, Borsa italiana ha perso 326 miliardi di capitalizzazione, una somma pari a 2,2 volte le dimensioni del listino di Varsavia, 3,3 volte lIrlanda e 1,8 volte Vienna. Anche per questo Milano resta poco rilevante a livello internazionale (rappresenta l1,6% in termini di capitalizzazione) e rispetto al pil è lultima tra le grandi Borse (Francoforte ad esempio pesa per il 46,9%; 922% Hong Kong). Senza contare che, dopo quattro anni positivi, è tornato in rosso anche il saldo tra i debutti e gli addii al listino: a ottobre lemorragia era a quota 9, il dato peggiore dal 2003, ma tutto lascia pensare che la ferita diventerà più profonda a fine anno. Continuano invece a macinare utili le cosiddette «società mercato»: Lse, di cui appunto Borsa Italiana fa parte, ha chiuso il bilancio con un risultato corrente di 47,3 milioni.
La cedola resta maxi. Nel 2008, per il quinto anno consecutivo, Piazza Affari si è però dimostrata generosa in termini di dividendi, saliti a 31,4 miliardi (il massimo del decennio), di cui la metà distribuiti da parte di Intesa Sanpaolo, Eni, Unicredit ed Enel. Abbastanza per fare lievitare il cosiddetto dividend yield al 5,8% a fine giugno. Il rapporto migliore è ancora del comparto bancario (7,5%) che ha però tagliato le cedole di 732 milioni. Vista la compressione dei margini a cui sta andando incontro il credito, questa tendenza a ridurre i dividendi potrebbe però proseguire. E Mediobanca ha calcolato anche come la stessa crisi mondiale provocata da una ingegneria finanziaria senza controllo sia costata alle prime 20 banche di Europa e Stati Uniti quasi 600 miliardi di capitalizzazione da inizio anno: 304 miliardi il «conto» pagato dalle big della Ue e 273 miliardi quello delle concorrenti statunitensi.
Cassettisti, attenzione al calendario. Anche i risparmiatori che hanno puntato sulle azioni con unottica di lungo termine possono quindi avere i conti in perdita. Lindice elaborato da Mediobanca ha avuto un rendimento medio annuo in termini reali che oscilla tra il -1,9% per chi ha comprato nel gennaio 2004 e il -49,4% per chi ha acquistato a inizio 2008, a ridosso del crollo. È andata meglio solo chi a è entrato nel 2003 (+0,8%). Ulteriore prova dellimportanza della tempistica è il fatto che dal primo gennaio 2007 sono dieci le azioni in positivo mentre chi ha acquistato nel 96 e nel 97 riesce ancora a strappare un rendimento in termini reali del 5,3-5,4 per cento. Anche allungando lorizzonte a 70 anni, sono solo sette i titoli dei trenta ancora quotati che hanno battuto linflazione: Generali è la migliore (+5,9%).
Ma per le azioni è tempo di saldo. Il crollo dei mercati si è però tradotto anche nel fatto che comprare unazione oggi significa spesso pagare un prezzo allineato al patrimonio netto della stessa società. Anche il rapporto prezzo/utile dei gruppi quotati, uno dei cardini su cui si muovono gli analisti per decidere dove investire, è pari al 10,6%.
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