Il 4 luglio 1873, in una di quelle giornate afose che rendono insopportabili le estati italiane, un uomo cerca refrigerio nelle acque del Po. Non è più un ragazzo, ha quasi sessantanove anni, ma è ancora un abile nuotatore. Certo, sa bene che il Po, come Renzo Tramaglino diceva dell’Adda, «non è fiume da trattare in confidenza», ma la corrente non gli ha mai fatto paura e poi l’acqua sembra così calma... Quello che accade dopo, nessuno lo sa. Lo raccolgono senza vita dalle parti di Coltaro, e solo a fatica riescono a riconoscerlo. Muore così, nel fiume che aveva dipinto tante volte e della cui bellezza è rimasto un interprete insuperato, Giovanni Carnovali, detto il Piccio, il maggior protagonista della pittura romantica italiana.
Chi voglia conoscerlo più da vicino, può approfittare della mostra aperta ora a Cremona, a cura di Fernando Mazzocca e Giovanni Valagussa, coadiuvati da un comitato scientifico di importanti studiosi come Petraroia, De Vecchi e altri. Centocinquanta opere, sue e dei suoi compagni di strada, ricostruiscono la vicenda espressiva di questo maestro, che De Chirico definiva «il Delacroix italiano», e che anzi, aggiungeva, aveva ben più talento di Delacroix.
La grandezza del Piccio si esprime nei ritratti e, soprattutto, nei paesaggi. Anche i temi sacri diventano per lui l’occasione per meditare sulla natura. Non per niente tra i suoi dipinti più famosi ci sono Mosè salvato dalle acque e Agar nel deserto, dove la figura è immersa nel concerto della vegetazione. E non c’è bisogno di aggiungere che il deserto in questione è verde, umido e fertile come la campagna lombarda, così come Mosè non viene salvato dalle acque del Nilo, ma da quelle del Po: nonostante qualche palma, messa lì per dovere d’ufficio, la famiglia di erbe che orla le rive del fiume è inequivocabilmente lombarda, come lombardi e, verrebbe da dire, manzoniani, sono i monti sorgenti dall'acque e avvolti nella nebbia, o la molle bellezza dei laghi.
Molli come giunchi, del resto, sono anche le figure del Piccio: i suoi corpi, che siano di Aminta o di Agar, di Arianna abbandonata o di Salace invaghita di Ermafrodito, si abbreviano e si arrotondano in morbidi andamenti curvilinei, come anse di un ruscello. E dietro di loro si avverte l’ombra, anzi la luce, della grande pittura veneta, da Veronese a Tintoretto a Tiepolo. Perché il Piccio è stato «l’ultimo romantico», come suggestivamente è intitolata la mostra, ma molto romanticismo italiano ha avuto una dimensione classica grazie al suo colloquio con l’antico. La pittura del Piccio, comunque, non è solo lirica. Nel ritratto alterna a volti carichi di passionalità altri esiti ancora più interessanti per il loro realismo: vecchie nobildonne di epica bruttezza, baronesse più plebee che aristocratiche, contesse rustiche come cameriere. Bellissima, ancora, è la serie degli autoritratti, in cui l’artista, più che volersi rappresentare, sembra volerci interrogare. E con quel suo sguardo senza retorica, nonostante il piglio veemente secondo il gusto dell’epoca, appare più vivo di noi che lo stiamo guardando.
Carnovali era nato a Montegrino, in Valtravaglia, nel 1804. Poco dopo la sua nascita il padre, muratore, era andato a lavorare presso i conti Spini, nella Bergamasca, dove il bambino era cresciuto (forse proprio qui avevano iniziato a chiamarlo «Piccio», piccolino, un soprannome da cui non si sarebbe più liberato).
Tra i primi ad accorgersi del suo talento era stato Diotti, direttore dell’Accademia di Bergamo, che, quando il ragazzo aveva solo tredici anni, aveva azzardato una profezia: «Predico che diventerà non un artista bravo, ma straordinario». Non si deve però dedurre da un tale elogio (a cui se ne aggiunsero altri, e tutti di intenditori, come quelli del Trécourt, che lo definì«il genio più deciso» dell’Ottocento italiano, o di Carrà che, anche senza stabilire classifiche, ne esaltava la misteriosa tensione visionaria) che il Piccio abbia avuto vita facile.
La critica del tempo lo ignorò e il Novecento, che invece ne avviò la riscoperta, dovette contrastare l’aura retorica, da «ribelle», che ormai lo aveva avvolto e impediva di comprendere la sua pittura. Per non parlare dell’handicap più grave: quello di vivere in Italia. Già, perché se invece che a Bergamo, e poi a Milano e a Cremona, avesse abitato a Parigi (dove pure si recò, e a piedi, com’era sua abitudine), le cose sarebbero state diverse.
LA MOSTRA
«Piccio. L’ultimo romantico», Cremona, Centro culturale S. Maria della Pietà. Fino al 10 giugno, catalogo Silvana Editoriale. Info: 0372-801452.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.