Si parla tanto di riforma universitaria, di meritocrazia, di risultati verificabili? E se dovessimo applicare alle terze pagine i criteri meritocratici, quali sarebbero i risultati? Se a un dottorando in letteratura si richiedono risultati scientifici, una volta uscito dall’università cosa mai potrà diventare? Non certo un critico letterario, al quale è richiesto di non sapere nulla e, se mai avesse saputo qualcosa, di dover dimenticare tutto. Così non troverete mai un critico che faccia riferimento a quelli che Harold Bloom chiama canoni in base a un principio meritocratico universale. Quindi perché studiare letteratura nelle scuole e all’università se poi i più grandi scrittori italiani sono Camilleri, Faletti, Piperno, Saviano, perfino Veltroni e Francheschini? Chi sono i critici italiani? Li si può dividere in categorie, volendo, ma ciascuno le rappresenta tutte, uno per tutti, tutti per uno.
L’ACCADEMICO Non scrive sui giornali. Al massimo dà un’occhiata alle pagine culturali di Repubblica, del Corriere, del Manifesto o del Sole24Ore per vedere se qualcuno lo nomina. Infatti non c’è nessuna soluzione di continuità tra le classifiche di vendita, le recensioni e gli autori viventi studiati e invitati come oratori negli atenei, troverete gli stessi nomi del mainstream editoriale: Pennacchi, Scarpa, Saviano, Scurati, Ammaniti, Avallone. Spesso a parlare di politica, perché della letteratura non frega niente neppure a loro.
DA TRENTA PAGINE Legge solo l’inizio dei romanzi che recensisce per lavoro e, se troppo voluminosi e complessi, li stronca preventivamente, contando sulla certezza che tanto nessun altro li leggerà. Angelo Guglielmi definì Aldo Busi «un grande scrittore che scriveva brutti libri», non significa nulla ma suona bene. Filippo La Porta continua a dare dello scrittore fallito a Moresco ma a colazione mi rivela di non aver letto se non le prime trenta pagine di Canti del Caos e, in quanto giurato allo Strega, di aver letto dell’ultimo Pennacchi, il vincitore, solo le prime trenta pagine, pur avendolo votato, e per mi chiede «Tu l’hai letto? Com’è?». Siamo l’unico paese in cui un grande romanzo di mille pagine di Jonathan Littell non ha suscitato dibattiti ma stroncaturine piccate perché non era facile da leggere come Aldo Nove. D’altra parte ho molte esperienze personali anche sui più insospettabili: Carla Benedetti, prima di scrivere un’entusiastica recensione di un mio romanzo su L’espresso mi inviò decine di mail per chiedermi come finiva, perché non aveva tempo di leggerlo. Per fortuna lo stesso romanzo fu altrettanto entusiasticamente recensito da Filippo La Porta e definito «Il Fratelli d’Italia del 2000», e anziché sentirmene lusingato, poiché con il libro di Arbasino il mio c’entrava ben poco, ne dedussi che dovesse aver letto solo le prime trenta pagine di Arbasino. Da allora smisi di contestare a un genio come Aldo Busi di andare in televisione in contesti sciocchini e ballerini e lo compresi. Meglio avere come referente Maria De Filippi che un critico italiano, e ormai quando mi invita Barbara D’urso ci vado perché meglio andare dalla D’urso a pagamento che a cena con un critico gratis.
L’AMICO DELL’UOMO Se sei uno scrittore vero e conosci un critico lo eviti, se sei lesivo e autolesionista come Parente lo umili o lo sputtani pubblicamente consapevole che tanto di loro, mancando le opere, nulla resterà. Intanto ti faranno terra bruciata intorno ma non ci riusciranno, l’hai già bruciata tu. Se sei un autore qualsiasi e arrivista quanto basta lo coccoli e lui ti ricambia citandoti appena può: il critico è il miglior amico dell’uomo, basta accarezzarlo, tanto non legge. Così è sufficiente vedere le liste degli autori indicati nei recenti dibattiti sugli “under 40” apparsi negli ultimi mesi sul Sole24Ore per avere una mappa completa delle consorterie. Li ritrovate insieme alle presentazioni, nei cenacoli, all’interno delle stesse collane dove spesso gli autori sono anche direttori di collana che offrono collaborazioni e saranno fedelmente ricambiati, e non mancano parentele: il Pedullà critico che elogia tanto Nicola Lagioia non è il padre ma il figlio, ma il Nicola Lagioia elogiato da Pedullà figlio è anche il suo direttore di collana.
L’ABUSIVO Non essendo uno scrittore, e tantomeno un critico, attacca chiunque osi scrivere un capolavoro. Spesso, non essendo neppure un critico, tende a sovvertire i generi per portare in alto il basso e l’alto in basso, sotto la sua scrivania, sotto i suoi piedi. L’esempio più noto è Antonio D’Orrico: dopo aver stroncato Joyce e Musil, dopo aver elevato Piperno a Proust italiano e Faletti a il più grande scrittore italiano vivente, oggi esalta il librino di Ammaniti Io e te come un capolavoro. Meno è meglio è. Più i libri sono insignificanti più sono immensi. Ha perfino inventato le recensioni in venticinque parole, per sbrigare il lavoro ancora prima.
IL GIORNALISTA È sostanzialmente uguale agli altri ma è dichiaratamente un giornalista che scrive di romanzi come scriverebbe di mozzarelle se fosse un critico gastronomico, tanto ormai non c’è bisogno di aver scritto i saggi di Bachtin o di Steiner o di Todorov o Genette o Adorno per essere critici, neppure di averle letti, anzi è d’obbligo ignorare tutto, al massimo citare Pasolini che va bene sempre. Le recensioni saranno poi raccolte in tanti pamphlet: il critico come intruso, casi critici, il critico militante, il tradimento dei critici. Nessuno li legge ma loro se li spulciano tra loro, è l’equivalente del grooming degli scimpanzé.
IL MULTICULTURALISTA Ospite da Michele Mirabella, su Rai Tre, due settimane fa, cercavo di spiegare in tv che uno scrittore scrive delle opere e, se sono opere d’arte, un critico è in funzione dell’opera, mai il contrario. Rispetto alle grandi opere: Proust o Michelangelo o Gadda sono più importanti di Debenedetti o Vasari o Contini, perché i secondi studiano i primi e dipendono dai primi, mai il contrario. Ma il buon Mirabella non mi capiva, io ero il vecchio e il giovane era lui: «Ma perché questa gerarchia così rigida? È bella la contaminazione» e, contaminato anche Michele, mi rispondeva come Jovanotti.
L’AUTOCITAZIONISTA La Porta cita Berardinelli che cita Manica che cita Onofri, nella speranza che qualcosa resterà. Emblematico il titolo dell’ultimo libro di La Porta: Meno letteratura, per favore!, la porta aperta agli amici critici. Difficile capire quale sia la differenza qualitativa tra una recensione di Giovanni Pacchiano, critico professionista, e una recensione di Loredana Lipperini, giornalista, né su cosa si fondi la loro autorevolezza se i risultato sono identici e i curricula anche. Interpellare la Gelmini.
L’AUTOCRITICO È crucciato e impegnato a interrogarsi sul ruolo della critica. Non leggono più i grandi scrittori ma studiano i critici colleghi perfino come modello di scrittura. Se la Gelmini fosse andata a assistere al convegno sulla critica tenutosi alla Sapienza di Roma avrebbe tagliato non i finanziamenti alla facoltà di Lettere e Filosofia ma direttamente le loro teste.
QUELLO VERO Non scrive sui giornali, e per quanto mi riguarda nonostante le belle recensioni ricevute negli anni sui miei romanzi, i migliori critici li ho trovati nei lettori, che a differenza dei critici leggono i libri. Mi sono arrivati, nel tempo, lunghi scritti sui miei romanzi da chi non te li aspetteresti mai, illuminanti perfino per me, positivi o negativi. Un cuoco abruzzese che si chiama Domenico Valeriano Durante, un ventunenne sardo al primo anno di giurisprudenza che si chiama Claudio Ottonello, un barista di Torino, un impiegato delle poste di Palermo, un avvocato di Napoli e tanti altri. Sono loro i veri critici.
VISTO DAL GENIO Witold Gombrowicz: «Come può un inferiore giudicare un superiore?».
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