Il «piccolo padre» della Bielorussia

Livio Caputo

Alexander Lukascenko, presidente della Bielorussia, è noto come «l’ultimo dittatore d’Europa». Eletto per la prima volta nel 1994, due anni fa ha modificato la Costituzione attraverso un referendum truccato, in modo da potere restare legalmente alla guida del Paese a vita. In queste ore (in Bielorussia i seggi vengono tenuti aperti per quasi una settimana) sta cercando un terzo mandato, e perfino il suo avversario, il liberale Alexander Milinkevich, ammette che ha la vittoria in tasca. Le previsioni sono che, se anche il voto fosse «pulito», Lukascenko prenderebbe il 60%, perché avendo chiuso tutti i giornali indipendenti, arrestato decine di oppositori e minacciato di licenziamento i dipendenti pubblici che osassero fargli la fronda, è in assoluto controllo della situazione; se poi, avendo espulso gli osservatori occidentali, decidesse di manipolare anche le urne, potrebbe arrivare a un 80-85%. La Bielorussia ha anche l’ultimo regime comunista d’Europa. L’80% del suo apparato produttivo e tutta la terra, sono ancora di proprietà statale, il vecchio Kgb non si è neppure dato la pena di cambiare nome, e ogni tanto le persone scomode scompaiono nel nulla come nella vecchia Urss. Ma la Bielorussia, Paese cuscinetto di 10 milioni di abitanti, non è la Corea del Nord: grazie anche alle generose sovvenzioni che riceve da Mosca, sotto forma di prezzi scontatissimi per l’energia, è povero ma non poverissimo e di recente ha preso a crescere - a voler credere alle statistiche ufficiali - a ritmi quasi asiatici: +7,8% di Pil nel 2005. Avendo preservato uno stato assistenziale di tipo sovietico, Lukascenko ha mantenuto il consenso dei contadini dei kolkoz, dei pensionati e di tutte quelle classi che altrove hanno più sofferto del passaggio dall’economia di comando all’economia di mercato. È molto amato anche dagli sportivi, che continuano ad essere aiutati come usava un tempo nei Paesi dell’Est e infatti mietono molto più successi a livello internazionale di qualsiasi altra nazione delle stesse dimensioni. Nei villaggi e nei piccoli centri, dove l’opposizione è pressoché inesistente e nessuno ascolta le trasmissioni radio occidentali dirette a diffondere la democrazia, il dittatore viene addirittura chiamato, come Stalin, «piccolo padre». Da qualche mese è anche l’unica persona che può essere chiamata «presidente»: per chi presiede una cooperativa, o una bocciofila, hanno dovuto coniare un altro termine. Dal 2005, chi parla male di lui in pubblico rischia fino a cinque anni di reclusione. «Il suo potere - dice l’ex dissidente russo Bukhovski - si basa su un potente mix di repressione, di paternalismo e di culto della personalità». Dopo il successo delle «rivoluzioni» filoccidentali in Georgia e in Ucraina, molti pensavano che nel 2006 sarebbe venuto il turno della Bielorussia. Milinkevich ha fatto un giro per le capitali europee, incontrando tra l’altro anche Angela Merkel. Ma, un po’ per non tornare a scontrarsi con Putin - per cui Lukascenko è il più fedele, anche se talvolta scomodo alleato - un po’ per non rischiare la destabilizzazione di un Paese che ha mille chilometri di frontiera in comune con la Ue e attraverso cui passano importanti gasdotti e oleodotti, i governanti europei non gli hanno offerto il sostegno che diedero a Yushchenko. Lukascenko, dal canto suo, non ha risparmiato sforzi per mettere in guardia i suoi cittadini contro i complotti degli occidentali e ad accreditare la voce che la Bielorussia sta economicamente meglio dei suoi vicini «capitalisti». Ancora ieri, a urne già aperte, ha fatto denunciare una presunta cospirazione americana per rovesciarlo. Oltre a soffocare il dissenso, è riuscito ad emarginare le categorie che più lo contestano, come gli studenti e certi intellettuali, e a convincere molti cittadini che, senza di lui, verrebbero meno ordine e stabilità. Milinkevich ha indetto un grande raduno dei suoi sostenitori a Minsk per domenica sera, quando si chiuderanno le urne, ma ieri il capo della polizia ha minacciato di arrestare per «terrorismo» coloro che vi prenderanno parte.

L’apparato repressivo appare pronto a tutto, e la comunità internazionale si prepara fin d’ora a dichiarare le elezioni «non democratiche». «Visto che non possiamo più riferirci alle maggioranze bulgare - scherza un diplomatico occidentale - d’ora in avanti potremo parlare di maggioranze bielorusse».

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