Eleonora Barbieri
da Milano
«Non so in che data risorgo». Nel frattempo, l'unica possibilità di vivere ancora un po' è quella di fare testamento: chiudersi con carta e penna in una stanza e mettersi a nudo su quel foglio bianco, detto «olografo», riempito di parole che sono affetti, amori e vendette postume. Passioni e confessioni di gente comune raccolte da Salvatore De Matteis, napoletano che di mestiere «controlla il lavoro dei notai» (è uno dei cinque soprintendenti notarili d'Italia) nel suo libro In piena facoltà, che uscirà per Mondadori il 21 febbraio.
Le ultime volontà sono l'atto estremo che vuole superare il limite fisico del tempo, una voce che, risuonando attraverso quella del notaio, finalmente raggiungerà il mittente, ovvero il mondo, «troppo distratto per ascoltarci quando eravamo in vita», come racconta l'autore: perché ciò che spinge a fare testamento è «il bisogno, urgente, di dirsi, di mostrare agli altri chi siamo e che cosa abbiamo fatto». Non è quindi indiscreto lo sguardo che sbircia fra le pagine, perché «è la persona stessa ad aver scelto di riconquistare la propria identità, raccontando la sua verità ai posteri»: un'inconsapevole operazione di riscatto agli occhi del mondo, degli amici e dei parenti più stretti e, allo stesso tempo, l'occasione per togliersi un ultimo sfizio.
C'è il marito che vuole far sapere che la moglie «si è ripassata tutto il condominio», e quello che confessa i peccati amorosi (una scappatella con «la signora di fronte e la fruttivendola», ma solo «a scopo terapeutico»); ci sono la vedova «di morte presunta», che ancora non si fida del decesso del coniuge e la madre che, rivolgendosi ai propri figli, non esita a scrivere: «Mi chiedo se ho fatto bene a mettervi al mondo». L'inconfessabile, ciò che avrebbe sconquassato il quieto vivere quotidiano, trova finalmente uno spazio di diritto: «Mio marito lo prende chi lo vuole, tanto è inutile e non funziona», dichiara Ada, ben più interessata a trascorrere il resto dell'eternità col cognato Angelo; mentre Giovannina lascia un ultimo atto d'amore ai figli, con un unico augurio: «Spero solo che vostro padre non mi segua». Il testamento è anche l'occasione per dare sfogo a dubbi improbabili («il mio codice fiscale non è mio», puntualizza un signore), alla rabbia per l'incompetenza del dottore («il medico curante mi ha curato a schifo, perché sto morendo uguale che se non lo avevo», annota zia Nicoletta) e per rendere pubblici i difetti altrui («Rosettina, viale Europa n. 30, terzo piano interno 6, senza ascensore per colpa dei condomini tirchi e dell'amministratore incapace e mariuolo che non presenta i conti da almeno tre anni») o, involontariamente, i propri, come accade alla signora Quintavalla: «Ricordate che io sorveglio tutto anche dopo morta, specie la tomba che deve essere una tomba, non un tombino per avarizia coi soldi miei. P.s. Per sicurezza voglio l'autopsia».
La rassegnazione («Anche la morte mi andrà male», è l'ultima invettiva contro le sfortune di una vita) e l'accettazione leggera del destino («Finché prostata vorrà») sono indissolubili dalla «malincunia», quella di chi scrive le sue volontà perché «ho sentito dire da persone istruite che non bisogna tenere per forza i soldi per potere fare testamento, bastano pure pochi centesimi che uno ha il diritto di farlo e dire tutte le cose che vuole dire».
Ci sono parole che lasciano il segno, ricorda De Matteis, come quelle della giovane donna che, di lì a poco, morirà di un male incurabile, o quelle di un ragazzo suicida, o l'inaspettata confessione di un duplice omicidio.
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