Piergiorgio Branzi ritratti aristocratici dell’Italia anni ’50

Al Centro Forma fino al 26 marzo un’antologica di quaranta immagini del grande reporter toscano

Barbara Silbe

Ci vedresti Cartier-Bresson, nelle foto di Piergiorgio Branzi. Non fosse per quei contrasti, per quel carico di neri e di bianchi così spessi, densi, quasi palpabili. Non fosse per le scene, squisitamente italiane, mediterranee, ci vedresti il tocco che tanto lo influenzò agli inizi della carriera. Se ti sforzi lo trovi ancora, in certi suoi scatti, l’approccio tipico del maestro francese. I suoi bottegai napoletani sembrano quelli della Parigi di inizio secolo. Alcuni vicoli, certi ragazzetti capovolti sulla piazza Grande di Burano, certe comari alla finestra, le vedute di Scanno. Si è aperta ieri, allo Spazio Forma di piazza Tito Lucrezio Caro 1, una antologica dedicata all’autore toscano, che si compone di 40 immagini selezionate da Paolo Morello, direttore dell’Istituto Superiore per la Storia della Fotografia di Padova. Già nel 2003 l’istituzione veneta aveva curato e pubblicato una monografia su Piergiorgio Branzi, notevole studio a cura dello stesso Morello e di Sandra S. Phillips. Da quella raccolta viene l’esperienza per la mostra meneghina.
«Incanti e altri ritratti», questo il titolo, aperta fino al 26 marzo. Esposta la serie dei muri, emblematiche opere di raffinata sapienza compositiva dove l’autore analizza, attraverso crepe, suppellettili, forme e dettagli della superficie inquadrata, tutti i segni del tempo e i pensieri che lo attraversano. In mostra anche i suoi volti del Sud italiano, grevi, immobili, orgogliosi, arcaici. O i paesaggi andalusi spazzati dal sole e i familiari giardini incantati ricoperti di neve. Branzi ritrae paesani, preti, borghesi o bambini, cercando di coglierli di sorpresa, inquadrandoli come per imbalsamarli, per svelare segreti, per indagarne la psicologia con un po’ di quel sarcasmo che lo contraddistinse fin dagli esordi.
Nato nel 1928 a Signa, un paesino sulle rive dell’Arno, era terzo di sette figli. Nel 1953, Piergiorgio Branzi vide a Palazzo Strozzi di Firenze una mostra di Henri Cartier-Bresson: ne rimase sconcertato e lì comprese la forza evocativa di una sola immagine. Era un autodidatta colto e aristocratico, stregato dal più giovane dei linguaggi artistici fin da bambino, influenzato anche dalla corrente neorealista che invadeva allora cinema e letteratura. Non divenne mai un fotografo professionista, anche se raggiunse subito la notorietà. Si dedicò al giornalismo a partire dagli anni Sessanta. Collaborò per i primi settimanali illustrati, in particolare con «Il Mondo» di Pannunzio, per diventare presto il primo corrispondente televisivo occidentale da Mosca. Seguì l’esperienza di Parigi, fu commentatore al telegiornale, documentarista e inviato speciale per la Rai da tutto il mondo.

In lui rimane vivo l’insegnamento di Cartier-Bresson: l’immagine definitiva è il prodotto di previsioni, di riflessioni, di aggiustamenti e tagli, ma l’equilibrio della forma viene soprattutto dal cuore, dal saper cogliere il momento decisivo nel quale scattare.
Progetto realizzato dalla Fondazione Corriere della Sera e da Agenzia Contrasto, in collaborazione con Atm. Orari: 11-21; giovedì fino alle 23; chiuso lunedì. Info 02-5811.8067.

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