Cultura e Spettacoli

La pietas umanissima di Raboni

Giovanni Raboni moriva il 16 settembre di un anno fa. Era nato nel 1932, a Milano. L’opera di un grande autore, si usa dire, resta e investe il mondo. E prosegue la sua storia, passando da lettore a lettore. E anche così si realizza quella che Raboni stesso amava definire la comunione tra i vivi e i morti. Se il rapporto tra chi ancora c’è e chi non c’è più è uno dei grandi temi della poesia, pochi hanno saputo parlarne con la disarmata rassegnazione e, nello stesso tempo, con lo stupore di Raboni. Sono, infatti, gli assenti che si ostinano a mandare ricordi, segni, tracce, spie d’esistenze pregresse, accenni a storie interrotte, angosce che i sopravvissuti (tutti noi lo siamo, in qualche maniera) accolgono e portano avanti. Per questo una città, una casa, una strada s’illuminano di nuovo senso e nuovo valore quando si avverte che lì è passato, ha abitato, ha vissuto qualcuno che, ora, manca: se ne avverte l’aria, forse qualcosa di più dell’aria. E dunque rimane, dalla parte dei morti, una sorta di secondo esistere depotenziato, labilissimo. Un «poco più del nulla» che i vivi sentono e hanno il compito di elaborare, conservare affinché non svanisca: la cosiddetta barbarie inizia da lì, quando i morti subiscono una eventuale seconda, più orrida cancellazione. Dunque, se è possibile definire in pochi e superficiali tratti il filo conduttore che tiene uniti i versi di Giovanni Raboni, osserveremo che è stata la continua indagine svolta tra frammenti, barbagli di vite scomparse a costituire la sua ossessione più forte, il suo tarlo. La vocazione di Raboni era, in verità, una pietas semplice e umanissma che si traduceva, nelle pagine, in ricordo. O in uno sguardo che, paradossalmente, in ogni forma di adesione alla vita intravedeva qualcosa che stava già oltre o prima della vita stessa. Così, ogni stato dell’anima, ogni tonalità affettiva (l’amore, lo sdegno civile, la compassione...) aveva come costante cartina di tornasole la presenza, il ritorno degli scomparsi. Il laicissimo, illuminista Raboni sapeva come pochi riconnettere i «due regni», e dava voce a un sentimento strano e duplice, dove i lampi dell’euforia generata da una inesistenza ritrovata si mescolano alla disperazione per la perdita. Sentimento (insisto su questa parola, ormai quasi espulsa dal lessico dei commentatori) raro in una persona, che ha fatto di Raboni il poeta della gioia visionaria coniugata alla totale assenza di consolazione, di una luce riconnessa al buio che solo lui sapeva vedere. Per questo è stato, in fondo, un autore svincolato dai canoni. Certo, le ascendenze, le predilezioni letterarie, la memoria di lettore ricaduta nelle pagine sono un dato visibile, così come è un dato che nella sua vicenda poetica esistono primi, secondi, forse anche terzi tempi. Come un dato è, di nuovo, il debito che tanti hanno verso di lui. Un eventuale catalogo mostrerebbe - credo - collegamenti inattesi, magisteri meno ovvi del previsto. Rimane, alla fine, un ultimo dato. Tetro e duro da accettare: è un anno che manca un uomo la cui cifra umana, il cui atteggiamento verso la vita è stato unico.

E non torna.

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