Pietri, cento anni dopo: la celebrazione dell’eroe negato

Pietri, cento anni dopo: la celebrazione dell’eroe negato

Normale. Quasi normale. Diciamo che ci sono sfide che di normale non hanno quasi nulla se non i protagonisti. Come si affrontano il Sahara, l’Alaska o il Grande mare di sabbia egiziano da soli, senza parlare con nessuno per giorni, senza cedere alla stanchezza, allo sconforto o alla paura? Che fisico serve? Che forza nella testa? Non c’è una regola, tranquilli. Valgono la passione, un sereno rapporto con la fatica e un’ottima dose di «sana dissennatezza».
Quello degli sportivi «estremi» è un mondo a sé. Un pianeta particolare ma non esclusivo. Nessun superuomo, pochi vitaminizzati superman con tanto di ricchi sponsor che garantiscono materiali e trasferte a cinque stelle. Almeno dalle nostre parti chi ha deciso di sfidare di corsa il ghiaccio e la sabbia ha solide radici contadine, non si allena seguendo tabelle da fanatico, ha mogli e figli e quando non corre lavora e lavora sodo. Da Marco Olmo, a Roberto Ghidoni a Ulderico Lambertucci che un po’ fa storia a sé e che l’anno scorso a sessant'anni ha corso 12mila chilometri in sei mesi esatti fra Macerata e Pechino, per pregare sulla tomba del missionario padre Matteo Ricci. Il «runner» marchigiano ha manifestato la sua grande fede, toccando - sempre di corsa - i santuari di Lourdes, Santiago de Compostela, Fatima e Czestochowa, unendo insieme devozione religiosa e passione sportiva.
In questa specialità della corsa estrema siamo davvero i più forti al mondo. Gli americani, che queste gare invece le fanno più per mestiere che per passione, ci investono un sacco di soldi ma sono costretti ad inseguirci. Lo hanno capito da un pezzo e sono quasi sull’orlo di una crisi di nervi nonostante si attrezzino con materiali tecnici di ultima generazione, diavolerie satellitari in grado di indicare in ogni istante posizione, calorie, chilometri, latitudini e altro ancora. Sì perché gli italiani corrono un po’ più fai-da-te però vincono. Dalla Marathon de Sable alla Desert cup in Giordania, all’Idita Road in Alaska al Trial du Mont Blanc è un susseguirsi di bandiere tricolori. Imprese da leggenda firmate da atleti che sono prima di tutto uomini normali e che non hanno budget stellari o non li hanno per nulla. Si allenano di notte per non «rubare» ore alla famiglie o perché di giorno lavorano nei campi o nel caseificio della loro cascina. Non fanno il potenziamento in palestra rincorrendo alchimie ma spaccando cataste di legna che poi servono per l’inverno o trascinandosi su e giù per le valli gomme da camion imbragate con le corde.
Marco Olmo oggi è più grande ultramaratoneta al mondo. Sessant’anni, di Alba, vive nel paesino di Robilante dalle parti di Cuneo. Dopo le elementari per ragioni economiche ha abbandonato gli studi e ha fatto il contadino. Poi il boscaiolo, l’autista di Tir e altri mestieri ancora finché a 54 anni è andato in pensione. Ha corso e sciato sempre per passione poi un giorno, una decina di anni fa, ha scoperto il deserto. Una «malattia» che, suo malgrado l’ha fatto diventare famoso: tre vittorie nella Desert Marathon in Libia, 4 nella leggendaria Desert Cup in Giordania e altro ancora per un palmares da far invidia, e non solo, agli americani. Ha il viso scavato dalle rughe e cotto dal sole, pesa una sciocchezza e la diplomazia non è il suo forte. In gara passa per scorbutico ma spesso si dice così di chi si fa i fatti suoi. Per lui la corsa è il «quadrifarmaco», la medicina perenne, che migliora il suo stato psico-fisico. Dicono che abbia fermato il tempo ma forse ha solo conservato la semplicità delle sue origini: «Non si può correre per lavoro - dice -: è innaturale. La fatica ha senso solo se scegli di farla e la corsa è uguale. Rendila obbligatoria e fa schifo. Non mi piacciono quelli che parlano di sfide personali e poi si appoggiano agli altri. Gli alpinisti che vanno sull’Everest con la scorta dei portatori, che senso ha? Io corro per me, ma corro da solo...».
Da Olmo a Ghidoni. Dai 40 gradi all’ombra della Giordania ai quaranta sottozero dell’Alaska e ai quasi 1.800 chilometri dell’Iditaroad percorsi in solitaria. Ovviamente. Roberto Ghidoni, 56 anni, ritiratosi a vita contadina nel Bresciano, a Ludizzo, una valle sul fiume Mella, dopo aver studiato ingegneria al Politecnico di Milano e dopo aver capito che la città non faceva per lui è un altro filosofo della fatica. Gli indiani del mare di Bering lo chiamano «Lupo che corre» e a lui, che dalle parti di Anchorage è ormai una leggenda, gli si illumina il volto. Ogni volta dice che in quell’inferno gelato non tornerà più, che è l’ultima volta, poi però riparte: «Chi me lo fa fare? È un richiamo. Là sui quei ghiacci c’è il senso della vita, quello grosso, quello vero...». Roby, come lo chiama con la classica cadenza bresciana Marco Rosa, il medico che lo segue «ha un fisico bestiale». Lungagnone di due metri, 89chili di peso e 49 di scarpe ha un «motore» da fondista e la capacità di dormire due ore a notte anche per diverse settimane. La differenza è tutta qui. È questo che gli americani che corrono in Alaska non riescono a fare. Studiano, s’attrezzano, inventano slittini in leghe aeronautiche che pesano un soffio ma poi però si trovano di fronte «Piedone» che anziché fermarsi a dormire tira dritto con la sua slitta da artigiano e la sua giacca da montanaro senza le patacche degli sponsor. Non c’è storia. Da anni lo hanno messo sotto la lente. Lo studiano. Studiano come si alimenta, come corre, come recupera. Ma la differenza è che nei suoi allenamenti in Valtrompia il computer non esiste, non mangia barrette energetiche ma parmigiano, pane integrale, carote, prosciutto, pasta, uova, miele e fichi secchi: tutto, o quasi, fatto in casa. Corre di notte per simulare il freddo polare e si trascina una gomma da camion o cataste di legna pensando alla sua slitta nel silenzio dei ghiacci. E poi cammina. Cammina sempre perché l’auto proprio non la sopporta. «Qualche anno fa - racconta la figlia Ginevra, maestra di sci a Madonna di Campiglio - avevo avuto un piccolo problema ed ero stata ricoverata in ospedale a Tione di Trento. Ho chiamato papà e gli ho detto di star tranquillo. Lui invece la notte è partito da casa nostra a piedi e la mattina dopo alle nove me lo sono ritrovato in stanza. S'è fatto 85 chilometri tra le montagne...». Così, come se fosse una cosa normale.

Quasi normale, viene da dire.

Commenti