Di Pietro cavalca la protesta per acchiappare i voti operai

RomaDi Pietro adesso indossa la tuta blu. In fondo, agli operai l’alleato piddino non parla più da un pezzo, preferendo i salotti più o meno buoni. Perché allora non presentarsi nelle fabbriche, davanti ai cancelli, come facevano Lama e Berlinguer? Tonino, che magari inciampa sui congiuntivi ma quando fiuta spazi elettorali sembra un pointer, ha già capito cosa deve fare: soffiare sul fuoco della protesta per poi ispirare consensi, applausi, voti.
La data per l’operazione Cipputi è già fissata: 20 aprile. Tra cinque giorni l’ex pm farà la trottola per gli stabilimenti del profondo Nord-Est per poi finire davanti ai cancelli dell’Iveco, in quel di Brescia. Per essere ancora più credibile porterà con sé uno tosto, uno che è cresciuto a pane e lotte sindacali: quel Maurizio Zipponi, già segretario della Fiom bresciana, ex rifondarolo e ora portatore del vessillo dipietrista sulla strada di Strasburgo. Candidato alle europee con la casacca dell’Idv, Zipponi ammette che «oggi, nelle fabbriche, un voto contro il centrodestra è un voto per Di Pietro», rispedendo al mittente, indirettamente, la critica biliosa sparata da Pier Paolo Baretta, onorevole del Pd: «Il Partito democratico non può essere un semplice contenitore di dissenso, come invece è l’Italia dei valori».
Fratelli coltelli. Ma al di là delle sberle tra gli «amici» nell’opposizione, Di Pietro corteggia le catene di montaggio da un bel po’: appena può corre a mischiarsi alle manifestazioni della Cgil, arringa i licenziati Alitalia, sventola grafici sulla cassa integrazione, si smarca dai tentennamenti piddini in materia di lavoro, salari, ammortizzatori sociali.
La base dipietrista ha un’anima proletaria che, orfana dei nipotini del Pci, se non è già salita sul Carroccio, sta meditando di scalare il trattore dell’ex pm. Gente che sente la crisi sulla pelle, che arranca con stipendi da fame e che sta pure guardando Oltralpe con simpatia.
Basta leggere Beppe Grillo, il primo tifoso di Tonino e del «bossnapping», la pratica del sequestro dei manager ora tanto di moda in Francia. L’iracondo comico, campione del vaffa e dell’insulto, getta alcol sul fuoco che sta divampando a Parigi e dintorni e definisce la segregazione degli odiati dirigenti aziendali «una nuova forma di relazione sindacale». Parole come pietre: «I lavoratori rinchiudono per qualche ora, o anche per una notte, i dirigenti in un ufficio. Non è un sequestro vero e proprio. È limitato nel tempo e non produce danni fisici. È un estremo tentativo di dialogo da parte dei licenziati». La nuova ricetta per contrastare la perdita di lavoro è chiara, netta e, in fondo, perché non esportarla pure qui? «I bossnapper si moltiplicano con la chiusura delle aziende. Il riscatto richiesto non è più il denaro, ma la conservazione del posto di lavoro - scrive il Masaniello della Lanterna -. Il dirigente che, con un tratto di penna, licenzia migliaia di dipendenti per aumentare la produttività ha ora un pensiero in più. Non erano sufficienti i pensieri delle stock option, dei bonus e dei benefit aziendali. Se tutto ha un prezzo, un licenziato può però costare molto caro. Vi ricordate i bei tempi in cui gli stipendi dei manager aumentavano a ogni taglio dei dipendenti? Beh, sono finiti». Musica per le orecchie dei grillini e dei dipietristi più imbufaliti.
Anche se, a dire il vero, l’ex sindacalista duro e puro Zipponi tira il freno a mano: «Simpatie nei confronti del sequestro dei manager? Una vera stupidaggine. Ho passato la vita a fare il sindacalista e quando nel passato ci sono state tensioni con gruppetti che avrebbero voluto scivolare verso forme di violenza, beh... I lavoratori sono sempre stati danneggiati».

E neppure Paolo Brutti, responsabile delle politiche del lavoro dell’Italia dei valori, se la sente di applaudire: «Capisco la rabbia degli operai, è una forma di disperazione sindacale, ma se si tollerano atti di violenza si passa dalla ragione al torto».

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