da Roma
«Con due gruppi distinti saremo il forcone dattacco dellopposizione», annuncia con ardita metafora il dipietrista Donadi.
Sarà. Intanto, ieri al loft, è stata ufficializzata una separazione annunciata: Tonino Di Pietro vuole starsene per fatti suoi, in barba alle promesse elettorali, e non ha alcuna intenzione di confluire nel gruppo Pd. E a Veltroni e Franceschini non è rimasto che prendere atto dello smarcamento dellex pm, e cercare di indorare la pillola, assicurando che lo stop è solo «tecnico», perché i gruppi saranno «federati» (ipotesi non prevista dai regolamenti) e cercheranno di darsi «speaker unici su diversi argomenti». Un déjà vu che non promette nulla di buono: già lUlivo, allora diviso tra Ds e Margherita, tentò per unintera legislatura (2001-2006) di darsi degli «speaker unici» in Parlamento, e lunico risultato fu un estenuante quanto inconcludente braccio di ferro su chi lo dovesse fare.
Ma lobiettivo, assicura Franceschini, resta quello di «procedere il più rapidamente possibile a una convergenza di Idv nel grande progetto riformista del Pd». Quando? «Entro la legislatura», dice il solito Donadi, e si capisce che Di Pietro ha tutte le intenzioni di prendersela comoda: punta a tenersi le mani libere, a mantenere la sua monocratica ditta (che con il gruppo autonomo incasserà 25 milioni di euro tra finanziamento pubblico e contributi del Parlamento), a fare un nuovo bottino elettorale alle Europee del 2009, e poi si vedrà.
Daltronde, nemmeno nel Pd si strappano i capelli per la consensuale separazione. Non avere dentro casa Di Pietro e i suoi 29 deputati e 14 senatori presenta numerosi vantaggi. Politici, perché ritrovarsi a discutere la linea parlamentare con Pancho Pardi o Leoluca Orlando sarebbe un tonfo allindietro, ora che ci si è liberati della Sinistra radical. E poi pratici: come spiega un dirigente del gruppo ulivista, «qui si fregano le mani, perché con tutti gli ex potenti che abbiamo da piazzare, evitare di dover spartire i pochi posti istituzionali che ci resteranno con i dipietristi è un sollievo». Ognuno per la sua strada, dunque, e senza grandi rimpianti.
Daltronde di rogne da sbrogliare Veltroni ne ha parecchie altre: chiuso il caso Di Pietro, rischia di scoppiare una nuova grana con i radicali, che minacciano di non entrare neanche loro nel Pd. «Se entrano nel gruppo Misto lo monopolizzano, avranno un capogruppo in proprio e lidea li alletta», spiega Lusetti del Pd. In ballo però cè la quota di finanziamento pubblico che il Pd si è impegnato a versare ai radicali, ma a patto che non si mettano a giocare fuori casa. E poi cè la partita dei capigruppo del Pd: la postazione di Montecitorio sarà cruciale, e da ieri è ufficialmente in campo la candidatura di Bersani, sponsorizzato da DAlema.
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