Caro Granzotto, i nostri antenati, Virgilio e quel bacchettone di Augusto, per screditare gli ultimi Cartaginesi, hanno ridotto Didone a una sprovveduta, sedotta e abbandonata. Didone, il cui nome era Elissa, era sorella di Pigmalione, re di Tiro, il quale fece assassinare il marito-zio di Didone. La regina fuggì con il tesoro e un gruppo di seguaci. Sostarono a Cipro, dove rapirono 80 ragazze, sacerdotesse di Afrodite, poi fecero vela per lAfrica, dove a Didone fu concesso di occupare tanta terra quanto poteva contenerne una pelle di bue. Didone tagliò la pelle in strisce sottilissime e ottenne così terra sufficiente per il suo popolo. Le pare che una tale donna si potesse uccidere per labbandono di un Enea, sconfitto e con padre a carico? Infatti si uccise per salvare la propria colonia e la propria gente da Iarba, re locale, o più probabile gli si oppose, ma fu sconfitta.
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Lei mi è simpatica, gentile lettrice, e apprezzo molto la sua difesa femminista di Didone. Concordo: è difficile (ma non impossibile) immaginare che una simile donna si sia tolta la vita per quel pirlacchione di Enea, per quel «Paride effemminato», come lo liquidò Iarba, re dei Getuli. Però, vede, le prove a carico sono parecchie e ci si è messo anche padre Dante sistemando Didone, «colei che sancise amorosa», mica no, nel secondo cerchio dellInferno (che poi, a tu per tu con donne dalla cotta facile e che bruciarono damore, anche Dante fa lo svenevole e mi va a cadere come corpo morto cade). Stando così le cose il voler escludere Enea dalla vita di Didone non è fare del sano revisionismo, prassi per altro a me assai gradita, ma girare la frittata. Cosa che non si fa o comunque che non è bello fare, nemmeno per difendere, nellottica femminista, la dignità e la reputazione di una superstar del mito. Pero, siccome lei mi è simpatica le vengo incontro: e se arrivassimo alla conclusione che Didone - donna tutta dun pezzo e che certo non amava le mezze misure - si trafisse col gladio dellamante non per la disperazione desser stata mollata, ma per l'abominio (la follia, come vedremo appresso) dessersi concessa - «di nodo indissolubile congiunti», stando alla traduzione di Annibal Caro - a un mamalucco? Traditore e anche irriconoscente, perché come gliele canta Didone: «Era costui dianzi nel lito mio, naufrago, errante, mendico. Io lho raccolto, io gli ho ridotti i suoi compagni e i suoi navigli insieme, cheran morti e dispersi; ed io lho messo - folle! - a parte con me del regno mio e di me stessa». «Crìa cuervos», si dice in Ispagna, «y te sacaran los ojos», alleva i corvi e ti strapperanno gli occhi. Ed Enea è un «cuervo» col botto. Se ne sta lì, sul suo vascello, le vele dispiegate, prua su Erice; vede e ode Didone incavolata nera che gli urla: «Torna qui, vigliacco!» e cosa fa? Lasciamolo dire a Virgilio/Caro: «Enea, quantunque pio, quantunque afflitto e damore infiammato, e di desire di consolar la dolorosa amante, nel suo core ostinossi». Ostinossi, cioè, a prendere il largo. Quantunque pio. Quantunque afflitto (qui ci vuole: non essendo a caso il nostro antenato, Enea è lavanguardista delle future e fitte schiere dei «chiagne e fotte»).
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