Cultura e Spettacoli

PIRANDELLO Così era anche se non ci pare

I lati più intimi e segreti del grande autore nei ricordi del regista e sceneggiatore Luigi Filippo d’Amico, nipote acquisito del drammaturgo

Orgoglioso, impaziente, umbratile, malinconico. Ma sapeva anche essere tenero e generoso e sopportò il suo destino di marito devoto e infelice con una compostezza che sconfinava nel sacrificio. Luigi Pirandello, il più grande drammaturgo italiano del Novecento, nella vita privata vibrava di ansie e contraddizioni. Le stesse in cui, con impareggiabile maestria e sottilissimo umorismo, ha fatto dibattere i suoi personaggi.
Un universo interiore tumultuoso, quello dell’autore de Il fu Mattia Pascal, in cui le questioni familiari spesso erano il materiale grezzo per l’opera d’arte. A confermare questa circostanza, e cioè che le vicende intime di Pirandello-uomo affollavano l’officina creativa di Pirandello-artista, un libretto di Luigi Filippo d’Amico, a giorni in libreria per Sellerio (L’uomo delle contraddizioni. Pirandello visto da vicino, pagg. 175, euro 10), che è come una telecamera nascosta a scrutare certe scene di famiglia.
D’Amico, regista e sceneggiatore, è infatti uno che quella famiglia conosce bene, per una frequentazione che risale agli anni dell’infanzia e successivamente perché Pirandello fu il suo nonno acquisito. Egli, infatti, sposò la figlia di Lietta Pirandello, secondogenita del commediografo girgentano. E proprio la suocera ha tramandato a D’Amico molti episodi curiosi e inediti sulla vita del geniale scrittore. Come la ritrosia a usare il telefono e l’attrazione per l’alta velocità. Gli era stata consegnata a prezzo di favore una Astura. Quando Pirandello saliva in auto incitava l’autista a «spingere, ed era soddisfatto quando raggiungeva i 100 chilometri all’ora; e non sopportava che qualche altra auto lo superasse».
Le «contraddizioni» di Luigi Pirandello sono disparate: dal rapporto con il padre a quello con le donne, sino alla contestatissima adesione al fascismo. Ma anche il suo estremo «sentimento del pudore» mal si concilia col fatto che nelle sue opere spesso egli si mette a nudo, senza reticenze.
Il dodicenne Luigi ebbe il primo approccio col sesso in modo molto singolare. In un obitorio di Agrigento si spinse punto dalla curiosità di vedere in faccia la morte. Ma appena entrò sentì «un frullìo e un ansimare» che provenivano dalla penombra. Erano un uomo e una donna abbracciati e l’uomo aveva i pantaloni calati... Non si sa che cosa ciò significò per la formazione di Pirandello, ma, come osserva Leonardo Sciascia, in lui «il rapporto carnale sarà sempre accompagnato da un’ombra di repulsione». E D’Amico riporta una gustosa scenetta che sembra dar ragione a Sciascia: «Nel giardino del villino Conti a Castiglioncello - che Pirandello prendeva per sé, figli e nipotini - ci eravamo fermati noi ragazzini, a vedere due tartarughe che si accoppiavano. Passò il Maestro: ebbe subito un gesto di disgusto, e proseguì guardando dall’altra parte».
Pudore, orgoglio, fierezza e la fissazione della purezza della donna: virtù senza la quale perdeva ai suoi occhi ogni interesse. «Nemmeno i vent’anni permettono a Pirandello di godere serenamente l’incanto dei sensi; e avrà sempre ritegno per la mancata castità della donna». D’Amico si riferisce al rapporto che lo scrittore ebbe, durante il soggiorno a Bonn nel 1890, con la giovane Jenny Schulz-Lander, alla quale poi dedicherà la raccolta di poesie Pasqua di Gea.
E la prova di questo sentimento di vaga ripulsa che lo assaliva è datata 1923 quando, ormai famoso, è a New York per un viaggio. Stessa città dove Jenny, nel frattempo, si è trasferita. Lei «con molta discrezione gli invierà un biglietto: sarebbe felice di incontrarlo dopo oltre trent’anni. Ma Luigi si rifiuta». Complesso, doloroso e «pirandelliano» (è il caso di dire) l’universo femminile con il quale nella sua vita farà i conti.
Fu amato da molte donne verso le quali non nutrì mai forti sentimenti, ma l’unica di cui fu perdutamente innamorato, l’attrice Marta Abba, rappresentò «una fiammata sterile, dolorosa e anch’essa impossibile» per il semplice fatto che ella il Maestro non riuscì ad amarlo mai. E anzi, spesso, come emerge con evidenza dal carteggio, lo strapazzava.
Quella per sua moglie, Antonietta Portolano, fu «all’inizio una illusione d’amore, e presto una tenace, duratura passione». Passione senza amore. Sventurata donna, Antonietta. Preda della pazzia e di una gelosia che costeggiava il delirio e la violenza fisica. Accusava il marito di continui, inesistenti, tradimenti. Ma la sua mente era ormai oscurata e internarla fu un passo necessario. Un ricovero che durò quaranta, lunghissimi anni, fino alla morte. D’Amico ci consegna un’immagine tenera e struggente di quella signora.
«Una volta accompagnai mia moglie a visitare la nonna; restai lontano, emozionato, incredulo, come mi fosse apparso il tragico personaggio di un romanzo molto amato. Indossava un vestito nero, accurato, con merlettini bianchi alle maniche, e un cappello che su di lei sembrava importante. Pronta - dicevano le monache - ogni giorno, ogni ora, nell’attesa che Luigi venisse a riprenderla. In terra, infatti, vidi una valigia». Ma Luigi non la porterà più via da lì.

Assumendosi la colpa di quella malattia: «La follia di mia moglie sono io».

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