Pistorius, quando l'handicap dà fastidio

Da Losanna a Pechino quanti chilometri ci sono? Quattrocento metri, si potrebbe dire oggi, pensando a Pistorius e alla decisione del tribunale svizzero. Un tribunale, sì, ci voleva una sentenza dei giudici per sancire un fatto che qualunque uomo ordinario avrebbe già deciso in minuti due, da tempo.

Li chiamiamo ancora Giochi, anche se trattasi di un gigantesco marchettificio; ogni quadriennio la barzelletta dello spirito decoubertiniano, dilettanti allo sbaraglio, mentre in pedana, in campo, in pista scendono professionisti veri, seri, pagati, senza i quali i Giochi sarebbero giochini, giochetti, roba da giochi senza frontiere. Pistorius è un handicappato (si può dire?), dunque da proteggere e accarezzare con la carità pelosa, le frasi di circostanza, le paginate dei giornali, fino a quando, però, come tutti gli altri portatori di handicap, non incomincia a infastidire, a disturbare, ad alzare la testa e la voce, a sedersi al nostro stesso tavolo, sotto l’ombrellone di fianco, a esigere i nostri stessi diritti, addirittura a sfidarci in un campo di gara.

E no, qui comandiamo noi, figli di un dio superiore, garanti del bello, del sano, parenti dell’uomo che non deve chiedere mai. Pistorius sta provando a giocarsela da solo la sua vita, come mille altri costretti a inseguire, passando dalla corsia di un ospedale a una corsia della pista di atletica leggera, della vasca di una piscina, di un campo di pallone o di pallacanestro, lo sport come luce di uscita dalla penombra della maledizione.

Pistorius ora scenderà in pista tentando il tempo per la qualificazione, non cercherà medaglie, ha già vinto con se stesso.

Sarebbe poi meraviglioso, a Pechino, nella terra dove i diritti dell’uomo vengono violentati, vedere Oscar Pistorius entrare nello stadio come ultimo tedoforo o portabandiera del suo Paese. E allora la sua corsa non finirà dopo quattrocento metri.

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