Cultura e Spettacoli

La pittura è morta, viva la pittura (e qui vi consigliamo la migliore)

Se la critica letteraria periodicamente si pronuncia sulla morte del romanzo, altrettanto ricorrente è il tormentone, tra gli esperti d’arte, sul definitivo decesso della pittura. Tecnica vecchia, linguaggio inadatto a rappresentare i nostri tempi, frantumato dalle avanguardie da ormai un secolo, eppure si ripresenta ogni qualvolta il mercato si stanca delle provocazioni e delle trovatine, chiedendo invece stabilità e investimenti sicuri. Lo testimoniano, ad esempio, le ultime edizioni del Turner Prize (lì si sono affermati i bad boys dell’arte britannica) dove nella quartina di finalisti molti erano pittori, per esempio l’eccellente cinquantenne Dexter Dalwood, autore di quadri in cui ricostruisce da fonti giornalistiche una notte di Natale a casa di Elvis Presley, o la capanna di Unabomber, o la stanza da letto di Michael Jackson.
Che la pittura sia dunque vitalissima e ricercatissima in tutto il mondo lo testimoniano non solo il gradimento per mostre su tale genere, i prezzi in asta e nelle fiere, ma anche una pubblicazione come Pittura oggi, giunta ora in traduzione italiana (Phaidon, pagg. 448, euro 75). Un volumone con ben 550 immagini per quegli amanti dell’arte contemporanea che non si fanno incantare dall’ultima onda, dalle pippe concettuali e preferiscono solidamente fidarsi del potere della bellezza.
L’autore, Tony Godfrey, insegna all’università di Plymouth e lavora per Sotheby’s, vuole mettere la parola fine sull’annoso dibattito: «La pittura non è morta nel 1968, ma un certo tipo di pittura si è ritrovata all’improvviso in un vicolo cieco. Era arrivato il momento in cui altri germogli dovevano andare verso il futuro». Accettata la brusca rottura e le successive ripartenze, Godfrey tratteggia con precisione l’attualità, partendo proprio dall’elemento che più caratterizza il nostro tempo, ovvero l’ingresso dell’arte nella globalizzazione e, di conseguenza, il dialogo di nuovi Paesi con l’Occidente, spiegandoci che se in Cina, India e Africa troviamo una straordinaria vitalità, saranno pur sempre l’Europa e gli Stati Uniti i maggiori produttori di dipinti qualitativamente rilevanti. Particolare interessante, il critico «sdogana» Fernando Botero che piace al mercato e fa schifo ai curatori. Un atto di coraggio, questo.
Ma quali sono i temi e i linguaggi per i quali possiamo definire contemporaneo e non classico o datato un quadro, soprattutto figurativo? Ad esempio l’attenzione posta sul rapporto vita-morte, da cui Damien Hirst è ossessionato, che spiegherebbe il proliferare di teschi e allusioni alla vanitas barocca. Oppure il paesaggio del terzo millennio, finalmente sottratto all’ideologia del non-luogo, che negli anni Novanta fu un vero e proprio tormentone (dipingevano tutti periferie, autostrade e aereoporti). E ancora, pittura come territorio di dibattito post femminista, almeno a giudicare dal diverso significato assunto dal corpo della donna, la cui sessualità è spesso prepotente e aggressiva e lancia il guanto di sfida al luogo comune che la pittura sia espressione fallocratica.
Considerando invece gli stili, rispunta l’astrazione, sia nelle forme pure che in quelle contaminate con lo spazio, l’oggetto e l’architettura. Ecco, la pittura di oggi, dopo aver vissuto un lungo e ambiguo rapporto con la fotografia, torna a riflettere sulla mescolanza e la stratificazione dei linguaggi tra passato e presente. Una tendenza a lungo messa in disparte, l’informale, si ripropone nel rapporto con la tecnologia e la virtualità, mentre il Neo Pop sposa il mood delle tecniche di animazione per cui aspettiamoci presto quadri in 3D.
Quali sono i territori più fecondi per la ricerca pittorica? Godfrey insiste sulla «scuola di Lipsia» che indubbiamente ha licenziato talenti assoluti come Neo Rauch o Matthias Weischer. E, come quasi tutti i critici internazionali, snobba l’Italia, limitando il nostro contributo alla Transavanguardia di Cucchi e Clemente. Dopo, secondo lui, non sarebbe accaduto più niente: ipotesi balzana, in un Paese che per secoli ha cullato la tradizione della bella pittura. Strano che uno studioso così documentato e attento non abbia avuto voglia di farsi un giro per la Penisola. Capitasse in queste settimane, lo consiglieremmo di recarsi a Firenze da «Poggiali e Forconi», a visitare la straordinaria mostra di Luca Pignatelli, ulteriore dimostrazione di maturità del milanese che ha raggiunto una tale sicurezza da proporsi come lo Schnabel italiano. Oppure venga a Torino, da «In Arco», dove sono di scena i nuovi dipinti di Daniele Galliano di qualità eccezionale. E se proprio non si fida, chieda lumi al gallerista Massimo Minini di Brescia sull’attività di Ryan Mendoza, americano cresciuto a Napoli.

Perché non si possono compilare tomi enciclopedici ignorando, o peggio trascurando, fatti davvero importanti.

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