«Pizzo sul salario a esponenti di sinistra»

nostri inviati a Catanzaro

Ecco il verbale su cui ruota l’inchiesta del pm De Magistris. Raccoglie lo sfogo di Domenica Marsili, moglie del gip Giuseppe Greco, che arrestò l’ex segretario regionale Ds Franco Pacenza. La donna lavorava come segretaria del consigliere regionale diessino Antonio Acri (ora indagato), e a suo dire perse il posto per ritorsione nei confronti del marito. Al Pm rivela che assessori e consiglieri regionali calabresi chiedevano un «pizzo» sugli stipendi dei Co.co.pro assunti come propri collaboratori. Questo il faccia a faccia con il magistrato.
La tangente ai ds
«Il mio contratto prevedeva una retribuzione di 1.240 euro. Una parte della retribuzione non viene incassata dai lavoratori, ma deve essere consegnata ai consiglieri regionali e agli assessori regionali. Questa è una imposizione dalla quale non si può prescindere se si vuole lavorare. Da quanto mi risulta (...) quasi tutti sono costretti a pagare queste somme di denaro che vengono decurtate dal lavoro espletato». Uniche eccezioni, spiega, l’assessore Lo Moro e i consiglieri Chiarella e Magarò. Poi lancia accuse gravissime, tutte da verificare: «So che tra quelli che pretendono le somme più cospicue vi sono l’assessore regionale Michelangelo Tripodi (Pdci, ndr), il vicepresidente della giunta regionale Nicola Adamo (Ds, ndr), il quale ha anche il conto corrente co-intestato con i suoi collaboratori, il consigliere regionale Feraudo (Idv, ndr) e l’allora assessore regionale Morrone, attuale parlamentare (Udeur, ndr)».
«Per quanto mi riguarda - prosegue la donna - dovevo consegnare ad Antonio Acri circa il 15 per cento della busta paga. La prima somma che ho dovuto dare è stata di 1.000 euro, in quanto all’inizio ho preso, unitamente ai miei colleghi, alcuni arretrati. Poi, successivamente, sono stata costretta a consegnare 200 euro al mese, poi sono riuscita a ridurre prima a 180 euro e da ultimo, prima delle “forzate dimissioni” a 160 euro. Gli altri miei colleghi che prestano servizio nello staff di Acri - continua - anche loro sono costretti a pagare. Quelli che hanno contratti con retribuzioni migliori, dovevano consegnare somme più ingenti. Ad esempio, chi guadagna 3.100 euro deve dare 450 euro al mese». Insomma, per la Marsili c’era «un vero e proprio tariffario», che giustificava i prelievi come «spese di segreteria». A verbale spiega che «di me avevano un po’ di timore in quanto sapevano che sono la moglie di un magistrato», e quindi «credo per cautela - prosegue la teste - Acri voleva che pagassi, in contanti, la quota a me riconducibile. Altri miei colleghi pagano anche con bonifici o assegni. So anche di altri consiglieri che si fanno fare bonifici sui conti correnti, altri addirittura si co-intestano i conti correnti con i lavoratori (come detto, è il caso di Nicola Adamo)». E le percentuali, a detta della donna, variano. «Alcuni miei colleghi - mette a verbale - mi hanno raccontato di dover consegnare il 50 per cento circa della busta paga». Scopo dei salassi? Per la Marsili «non vi è dubbio che si tratta di un modo per finanziare in modo illegale consiglieri e assessori regionali».
Le missioni fantasma
Altro capitolo di presunto malaffare sono le «illegalità clamorose nella gestione delle missioni» degli stessi collaboratori dei politici che «vengono fatte risultare» pur non essendo avvenute. E i soldi dei rimborsi delle false missioni «confluiscono, integralmente, sui conti correnti riconducibili ai rappresentanti della Regione». Così, «per quanto riguarda Acri i soldi incassati dalle false missioni venivano consegnati sempre a (...) che possiede un quaderno nel quale annota le entrate e le uscite dei soldi».
Dimissioni forzate
L’accusatrice racconta poi la dinamica delle sue dimissioni forzate seguite all’arresto di Pacenza da parte del marito. «Sin dopo l’emissione dell’ordinanza custodiale hanno cominciato a segnalarmi, dallo staff di Acri, che quest’ultimo aveva subito pressioni politiche dal suo partito affinché fossi allontanata dalla sua segreteria». Il principale collaboratore del politico, insiste la Marsili, «mi disse che se non mi fossi dimessa avrebbero danneggiato mio marito attraverso articoli di stampa; in particolare, poi, mi indusse a rassegnare le dimissioni, contro la mia volontà, in quanto mi disse (...) che se non me ne andavo subito il consigliere regionale avrebbe licenziato tutti i miei colleghi, in pratica l’intero staff. Era un modo per indurmi a cedere, in quanto sapevano che non potevo tollerare che per colpire me avrebbero potuto “pagare” anche altre persone. Ho conservato anche sul mio cellulare due messaggi che mi sono stati inviati dal predetto Carnevale». E la donna mostra al magistrato quei due sms. Il primo, laconico, è del 31 agosto: «Domani mattina dammi le dimissioni». Il secondo, l’indomani, è più dettagliato: «Per favore, domani mattina dammi la lettera altrimenti per le 10 il presidente va a Reggio a revocare tutti». La morale, secondo l’ex segretaria di Acri, è chiara: «A questo punto avevano raggiunto il loro scopo e sono stata costretta a rassegnare le dimissioni. Per evitare un danno ingiusto anche ai miei colleghi e intuendo che si trattava di una ritorsione a seguito dell’arresto del Pacenza, sono stata costretta a dimettermi, in pratica a licenziarmi». Nicola Adamo replica sdegnato alle accuse, parla di «persecuzione», e di «ipotesi suggestive ma farsesche» per infangare lui e i Ds.

«Il colmo - attacca - è che a diffamarmi di un’infamia assolutamente infondata è una signora, contro la quale ho già disposto querela, sposata con il giudice che ha arrestato illegittimamente Franco Pacenza. Pretendo, se fondate e possibili, contestazioni a mio carico; mi si scruti fino in fondo e in ogni direzione».

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