La prima questione attiene al fattore tempo: se ne concede a sufficienza per smaltire le pratiche, per «fare giustizia», la falange di magistrati che passa da una trasmissione televisiva all’altra, da un «forum» all’altro, da un convegno all’altro, da un’intervista all’altra, dalla presentazione d’un libro, da un vernissage, da una prima teatrale all’altra? Giusto ieri davamo conto dei tempi lunghissimi per il deposito d’una sentenza (record assoluto quello del giudice Bartolomeo Quatraro: 2mila e 66 giorni) e l’altro ieri della mole degli arretrati, delle cause pendenti che giacciono, con probabili piaghe da decubito, nei palazzi di giustizia: dieci milioni, una più, una meno. Sarà anche causa dei ranghi ridotti, come sempre lamentano le toghe (anche se le magistrature francesi o tedesche, che i procedimenti li chiudono nei tempi prescritti e di arretrati nemmeno l’ombra, hanno un numero di magistrati pro capite inferiore al nostro), ma stare un po’ più di tempo in ufficio o in tribunale sicuramente aiuterebbe. La seconda questione attiene alla facoltà, ma se ne parla come di un diritto, del magistrato di esprimere in pubblico le proprie opinioni. Per averlo fatto, il Procuratore generale di Napoli, Vincenzo Galgano, è finito sotto processo, inquisito dal Consiglio superiore della magistratura. Mentre Antonino Igroia, della Procura di Palermo, ospite d’onore di Annozero, si è guadagnato l’applauso della platea di Santoro e, visto che non ha mosso dito o labbro per censurare l’intervento, quantomeno il plauso del Csm.
Con Galgano e Ingroia abbiamo voluto fare solo un esempio: di magistrati esternatori (e presenzialisti) son piene le cronache, con una decisa supremazia degli Ingroia sui Galgano e con una marcata differenza di trattamento per gli uni e per gli altri. In sostanza un magistrato (Galgano) non può permettersi di affermare che troppi pm sono mossi da «un fanatismo derivante dalla perfetta osservanza delle leggi» tale da provocare quelle «sofferenze alla gente e alla collettività» che rappresentano «il costo che i cittadini devono pagare all’autonomia della funzione giurisdizionale». Ma può permettersi di dire (Ingroia) che Berlusconi deve dimettersi per farsi poi comodamente processare. Non basta, dunque, che si dia assenso a un magistrato - chiamato ad applicare la legge - di opporsi e addirittura minacciare scioperi per impedire al Parlamento - chiamato a farle, le leggi - di legiferare in materia di giustizia. Gli si permette anche di esercitarsi nella politica politicante, purché essa sia d’indirizzo antiberlusconiano.
Anche se la tentazione è forte, sarebbe ingiusto affermare che una magistratura inoperosa, politicizzata e che come è stato detto usa depositare gli atti in edicola, è marcia. C’è una sua parte silenziosa e operosa, non presenzialista e attenta a separare la giustizia dalla politica che ne salva l’onore. Però si addice al sistema giudiziario un vecchio proverbio che recita: il pesce puzza dalla testa. E la testa si chiama Csm, lo stesso che riconobbe una «laboriosità molto elevata» e «particolari doti organizzative» al magistrato Angela Rosa Bernardini. Della quale poi si seppe che nel 60 per cento dei casi depositava le sentenze non entro i già larghi limiti (15 mesi), ma con ritardi che toccavano l’anno, ciò che tra l’altro permise a una ventina di mafiosi già condannati di tornarsene liberi (e ovviamente uccel di bosco). Lo stesso che lascia le briglie sciolte agli Ingroia e impone la mordacchia ai Galgano.
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