Il pm: "Politici come le Br" Ma per lui nessun reato

Nel ’97 Davigo usò la stessa terminologia delle scritte choc comparse a Milano. Eppure lui non fu nemmeno indagato

Il pm: "Politici come le Br" 
Ma per lui nessun reato

Roberto Lassini e Piercamillo Davigo. Il candidato «rinnegato» del Pdl e il Dottor Sottile del pool Mani pulite. Due persone agli antipodi. E però, se si scava con attenzione, si scopre che tutti e due hanno evocato, a distanza di tanto tempo l’uno dal-l’altro, le Brigate rosse, pronunciando parole pesanti sul filo della provocazione. Perché è scioccante accostare la giustizia al terrorismo. Lassini ha paragonato i giudici alle Br, Davigo le tecniche difensive degli imputati per tangenti a quelle dei brigatisti. Parole scandite da prospettive opposte. Ma, se si scomodava la formazione più sanguinaria della storia italiana, era per scuotere l’opinione pubblica.

A costo di provocare reazioni indignate. Reazioni puntualmente esplose nel caso di Lassini. Reazioni che nessuno ha visto nel caso di Davigo. Il lettore ricorderà i manifesti con la scritta choc: «Via le Br dalle procure». Quattordici anni fa, era stato Davigo a guadagnarsi i titoli dei giornali con una dichiarazione altrettanto forte: «Ci sono alcuni imputati che come le Br cercano di non farsi processare, per esempio reiterando 23 volte istanza di remissione ». Davigo parlava degli imputati di Mani pulite che, a suo giudizio, cercavano in tutti i modi e con tutti gli strumenti previsti dalla legge di sfuggire all’inevitabile condanna. Per Lassini, arrestato ingiustamente proprio ai tempi di Mani pulite, il problema è un altro: la politicizzazione della magistratura, o meglio di una piccola ma rumorosa frangia delle toghe italiane. Per questo, sia pure in modo tortuoso e indiretto, ha rivendicato in qualche modo la paternità di quei manifesti apparsi il 15 aprile.

Il suo giudizio è irricevibile dal punto di vista istituzionale? Le parole di Davigo arrivano invece a Forlì, nel corso di un convegno, l’8 giugno ’97. L’indomani i quotidiani italiani riprendono a tutta pagina l’affondo del celebre pm, ma nello stesso tempo lo riducono alla battuta di un fine intellettuale che non ha paura di scandalizzare pur di esprimere il suo acuminato pensiero. A chi si riferisce Davigo in quell’occasione? Il Corriere della sera , sia pure in forma in-terrogativa, accosta l’amarezza di Davigo alla «conclusione degli appelli Enimont e Conto protezione, agli sconti a sorpresa per Craxi e Martelli, all’assoluzione di Pillitteri ». Dunque,anche se l’interessato non conferma, la provocazione è quella di trasformare in neobrigatisti Bettino Craxi, Claudio Martelli, Paolo Pillitteri.

Personaggi di primo piano della vita del Paese e che certo non hanno mai fiancheggiato le Br. Per quella battuta a Davigo non succede assolutamente nulla. Lassini invece viene lapidato. È costretto alle dimissioni «impossibili» da candidato, e infatti è ancora in lista. È bollato come un impresentabile dal presidente Napolitano, che non spende una parola per ricordare il calvario patito dall’ex sindaco di Turbigo: i 42 giorni trascorsi a San Vittore e i cinque anni e mezzo di attesa prima di essere assolto. Infine, Lassini, e con lui un altro funzionario del Pdl, è indagato per vilipendio della magistratura. Certo, la sua frase stride con il sangue versato da magistrati come Emilio Alessandrini e Guido Galli. Ma qual è il confine fra reato e politicamente scorretto? Dov’è che la provocazione perde il suo fascino e si degrada fino a diventare indecenza? Nel 1997 Davigo non fu indagato, nessuno chiese le sue dimissioni, oggi continua a svolgere il suo delicatissimo lavoro nella magistratura. Nessuno, a parte qualche po-litico di centrodestra, osò dire che in quel modo il magistrato calpestava la storia italiana e sporcava irrimediabilmente le biografie di alcuni leader che, pur con i loro errori e le loro colpe, erano votati da milioni di cittadini.

L’indignazione nel nostro Paese va sempre a corrente alternata. Si protesta perché alcuni politici hanno provato a ricusare i loro giudici, o con le istanze di remissione, a far trasferire in altre città i loro processi. I brigatisti però non ricusavano i giudici: li minacciavano e minacciavano le corti popolari, dichiarandosi prigionieri politici. Poi, sparavano. Alle toghe... Ai giornalisti. Ai politici. A tanti altri. In Italia ci si straccia le vesti se un oscuro candidato scrive - ammesso che sia lui - «via le Br dalle procure». Se a tuonare è invece un magistrato autorevole, allora scattano tutte le opportune spiegazioni e la provocazione viene riassorbita. Così l’8 giugno ’97 è Francesco Saverio Borrelli, nelle vesti di pompiere, a spegnere l’incendio: «Ma, insomma, è ovvio, che quello di Davigo non era un paragone nel merito.

Mi pare che Davigo abbia semplicemente detto una cosa sotto gli occhi di tutti: ci sono imputati la cui difesa consiste nell’operare perché il loro processo non arrivi a sentenza ». E allora il paragone scandaloso è legittimo.

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